Non so se avete presente quei pittori che dipingono quadri con lo scopo di riuscire a imprimere sulla tela la realtà nella sua resa più fedele e autentica. Una realtà che è dipinta ma che pare fotografata. Ma come si fa a fotografare il turbine, la nebbia, l'oscurità? E a rendere l'indefinibile definibile e l'immagine suono?
A girare per prati e boschi, nella penombra più fosca, non si riuscirebbe a scorgere via che conduca verso un qualcosa di sicuro, verso una luce che penetra tra le fronde, ma che appare opaca e lontana, figlia di un calore perso nelle trame che il vento disegna. Il fluire della vita in una foresta nera, in un tempo che tempo non è, ma che si perde in se stesso, in un luogo in cui non ci sono bagliori di sorta, solo ombre lunghissime che si stagliano sui robusti tronchi di lecci e faggi segnati dagli anni.
Le casupole in pietra là, isolate nelle valli, non paiono essere abitate, e la litania arcana di una sacerdotessa che riecheggia e che arriva a noi straziata e sognante, rallentata nella sua forza propulsiva. Liz è il suo nome, nell'Oregon dalle mille stagioni è nata. Le lezioni neozelandesi attraversano l'oceano e creano paesaggi colmi di buio.
Le trame gotiche che stendono le loro scie su drone opachi e lunghissimi, la lezione dei Lycia setacciata con cura e immersa in un liquido amniotico. L'ambient-folk pastorale e rurale che incrocia la sua onda d'urto con rimandi al dream-pop più scuro e statico.
Due dischi paralleli e concettualmente legati in un blocco monolitico, nel quale i brani si compenetrano gli uni negli altri secondo una continuità intrisa di tepori ora harsh - seppur in una vena del tutto particolare - ora immersi in uno sfondo lunare.
Non resta che fermarci, coprirci le spalle e ascoltare il canto desolato di una sacerdotessa che invoca la discesa del buio sulla terra. Senza nemmeno il tempo di accorgercene, già abbiamo esalato l'ultimo respiro.
25/04/2011
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