Vent'anni di carriera e non sentirsene neanche uno. Yo La Tengo, ovvero Ira Kaplan, Georgia Hubley e James McNew. Appassionati di musica come pochi (non molto tempo fa, in una esibizione radiofonica, si sono presentati dicendo di poter coverizzare, al momento stesso, ogni richiesta degli ascoltatori della trasmissione), sperimentatori di forme altrui sino a divenire anch'essi canone di riferimento, vera e propria pietra miliare degli anni Novanta e dell'intero rock indipendente. All'improvviso un album discusso ("Summer Sun", 2003) e le facili, facilissime, prognosi di peste. La reazione. "I'm Not Afraid of You and I Will Beat Your Ass". Orgoglio, perché no, profondamente indie, e calci nel sedere (pardon, culo) a chi, nei confusi tempi odierni, è dedito a bruciare novità su novità in pochi minuti, senza dar importanza a tempi, volti e storie.
Primo passo: l'affermazione di sé. Il poderoso riffone di "Pass the Hatchet, I Think I'm Goodkind", vago, ma neanche tanto, sapore krauto, distorsioni e jam acida, il passato che torna, il chitarrismo psichedelico di Kaplan a contorcersi e aggrovigliarsi. Dieci minuti e passa che suonano dannatamente bene. Secondo passo: il disegno. Già, perchè se c'è una cosa che gli Yo La Tengo ci hanno insegnato in tutti questi anni, è che possono vestirsi di molteplici facce, e, attenzione, lo sanno fare davvero bene. La versione duemilasei ci consegna un album sì eclettico, ma il colore preponderante è una sfilza di deliziose canzoni pop.
Si parte lanciati dai fiati di "Beanbag Chair", pressante incedere di pianoforte e melodia cullante nell'inciso, a fondere classe e bubblegum; si attraversano lande funky-soul, con tanto di canto in falsetto, nella sbarazzina "Mr.Tough"; si scuote il capo leggermente, attraversando la soleggiata e lieve "The Weakest Part"; ci si lascia carezzare dalla velata "Sometimes I Don't Get You", trasudante pace assoluta. E alla fine si affonda il colpo in due gioiellini di maestosa purezza: "I Feel Like Going Home", dolcissimo pop-folk affidato a una Hubley sirena incantatrice, con preziosa coda strumentale spinta da pennate di acustica; e "Black Flowers", ballata pianistica con linea canora epica e toccante.
Scuola, talento e fantasia. "The Race Is on Again", il pezzo doveroso, chitarra psych, binari ad accompagnare il tragitto, personalità, e, ancora una volta, piacere. Sorprendere, spiazzare. "The Room Got Heavy", percussioni acquose e pulsazioni electro, battiti sexy, Hubley a recitare sotto ipnosi, pezzo dalla grande attitudine live ma già a punto su disco. Relax e trance. "Daphnia", sognante spartiacque di nove minuti per piano e acustica con qualche folata di violini.
Il porto è vicino, e il bagno di piacere deve interrompersi onde evitare stanchezza e stucchevolezza. Un paio di morsi ben assestati, colpi da ballo, punk da intellettuali, pop'n'roll , un bel mazzettino di chitarre che non guastano mai: "I Should've Known Better" nei panni della giostra e "Watch Out for Me Ronnie" in quelli della sfrenatezza. Manca il finale da ko. "The Story of Yo La Tengo", la nascita da fiotti di distorsioni ambient, i colpi di batteria ben assestati, la chitarra che comincia a tessere, la melodia e la carica rock finché morte non le separi, dodici minuti di omaggio che scorrono fino all'esaurimento delle forze.
Bene. Qualità e quantità. Odore di maturità (ma non poteva essere altrimenti), consapevolezza dei propri mezzi, talento disseminato un po' ovunque. Autocitarsi sì, ma andare oltre. Quando i giri di piano e i fendenti di chitarre di "Point to Shoot" servono a disegnare il pezzo meno interessante di una raccolta, vuol dire che ci si trova di fronte a un lavoro di un certo livello. Se mai ve ne foste andati, bentornati Yo La Tengo.
02/10/2006