Primo passo: l'affermazione di sé. Il poderoso riffone di "Pass the Hatchet, I Think I'm Goodkind", vago, ma neanche tanto, sapore krauto, distorsioni e jam acida, il passato che torna, il chitarrismo psichedelico di Kaplan a contorcersi e aggrovigliarsi. Dieci minuti e passa che suonano dannatamente bene. Secondo passo: il disegno. Già, perchè se c'è una cosa che gli Yo La Tengo ci hanno insegnato in tutti questi anni, è che possono vestirsi di molteplici facce, e, attenzione, lo sanno fare davvero bene. La versione duemilasei ci consegna un album sì eclettico, ma il colore preponderante è una sfilza di deliziose canzoni pop.
Si parte lanciati dai fiati di "Beanbag Chair", pressante incedere di pianoforte e melodia cullante nell'inciso, a fondere classe e bubblegum; si attraversano lande funky-soul, con tanto di canto in falsetto, nella sbarazzina "Mr.Tough"; si scuote il capo leggermente, attraversando la soleggiata e lieve "The Weakest Part"; ci si lascia carezzare dalla velata "Sometimes I Don't Get You", trasudante pace assoluta. E alla fine si affonda il colpo in due gioiellini di maestosa purezza: "I Feel Like Going Home", dolcissimo pop-folk affidato a una Hubley sirena incantatrice, con preziosa coda strumentale spinta da pennate di acustica; e "Black Flowers", ballata pianistica con linea canora epica e toccante.
Scuola, talento e fantasia. "The Race Is on Again", il pezzo doveroso, chitarra psych, binari ad accompagnare il tragitto, personalità, e, ancora una volta, piacere. Sorprendere, spiazzare. "The Room Got Heavy", percussioni acquose e pulsazioni electro, battiti sexy, Hubley a recitare sotto ipnosi, pezzo dalla grande attitudine live ma già a punto su disco. Relax e trance. "Daphnia", sognante spartiacque di nove minuti per piano e acustica con qualche folata di violini.
Il porto è vicino, e il bagno di piacere deve interrompersi onde evitare stanchezza e stucchevolezza. Un paio di morsi ben assestati, colpi da ballo, punk da intellettuali, pop'n'roll , un bel mazzettino di chitarre che non guastano mai: "I Should've Known Better" nei panni della giostra e "Watch Out for Me Ronnie" in quelli della sfrenatezza. Manca il finale da ko. "The Story of Yo La Tengo", la nascita da fiotti di distorsioni ambient, i colpi di batteria ben assestati, la chitarra che comincia a tessere, la melodia e la carica rock finché morte non le separi, dodici minuti di omaggio che scorrono fino all'esaurimento delle forze.
Bene. Qualità e quantità. Odore di maturità (ma non poteva essere altrimenti), consapevolezza dei propri mezzi, talento disseminato un po' ovunque. Autocitarsi sì, ma andare oltre. Quando i giri di piano e i fendenti di chitarre di "Point to Shoot" servono a disegnare il pezzo meno interessante di una raccolta, vuol dire che ci si trova di fronte a un lavoro di un certo livello. Se mai ve ne foste andati, bentornati Yo La Tengo.
(02/10/2006)