“The blues is an honest and emotional form of music that is thrilling to the soul.
I keep coming back to it, because it feels so good”
David Lynch
“Il grande sogno”.
David Lynch non usa mai un lessico arzigogolato, nelle interviste come nei titoli con cui battezza le sue “creature” (una rapida scorsa alla filmografia completa, cortometraggi inclusi, può renderne appieno l’idea). A parlare per lui è altro. Sono le sue intuizioni, i suoi film, i suoi dipinti: vere e proprie esperienze che si traducono in una sinestesia centrifuga che lascia tramortiti, increduli, incazzati, compiaciuti, violentati.
L’unica reazione che una qualsiasi sua opera non potrà mai suscitare è l’indifferenza. “Perdersi è meraviglioso”, ha più volte ribadito nelle risposte date a giornalisti audaci, che per anni hanno tentato inutilmente di estorcergli rivelazioni ex-post sulle trame nebulose delle sue pellicole.
“The Big Dream” arriva a due anni di distanza dall’
electro-pop, surreale e visionario, di
“Crazy Clown Time” e a quattro dalla sua adesione al bizzarro progetto di
Danger Mouse e il compianto
Sparklehorse,
“Dark Night Of The Soul”, senza contare le otto
suite ambient di “The Air Is On Fire” (risalente al 2007). La produzione, gli arrangiamenti e il missaggio sono ancora una volta affidati a Dean Hurley.
A pubblicare l’ultima fatica musicale dell’inafferrabile regista è la Sacred Bones, che già l’estate scorsa ha ridato alle stampe l’urticante colonna sonora di “Eraserhead”, in un’edizione
deluxe limitata con tanto di cartoline e 7” contenente un'inedita traccia firmata con Peter Ivers, “Pete’s Boogie”. Il flirt con l’etichetta di Brooklyn è iniziato sempre nel 2012, con la pubblicazione di un
remix di Lynch del brano “In Your Nature” di
Zola Jesus.
Questo nuovo viaggio onirico si apre con la
title track, un lento
contemporary-blues rarefatto che si regge sul ritmo morbido di percussioni elettroniche. “The time has come/ to say the words/ we want to hear”. La voce notoriamente esile di Lynch è un Virgilio sfuggente, che non indica alcuna strada da seguire.
L’ultimo
Tom Waits, quello di
“Bad As Me”, emerge dalle acque torbide di “Star Dream Girl”, non per un’affinità con le modulazioni gracchianti e cavernose del folle predicatore californiano, ma per la sporcizia che questo blues grezzo trasuda, assieme agli echi della chitarra di Marc Ribot.
Basso
trip-hop flessuoso e
beat sensuale sono gli ingredienti di “Last Call”, colonna sonora di un’umida, appiccicosa notte estiva passata a vagare per le strade semideserte di Los Angeles. “Cold Wind Blowin’” è un atto di ingenua autocitazione (arduo non rievocare, ascoltandola, certe scene di “
Twin Peaks” e “Fire Walk With Me”), ammaliante e del tutto perdonabile.
Ecco arrivare improvvisamente
Bob Dylan, in versione “ottimo caffè e ottima crostata di ciliegie”. La rivisitazione di “The Ballad Of Hollis Brown” omaggia infatti il grande cantautore di Duluth con derive
psych-dub che aiutano le mente a sopraffare la ragione e a farsi traghettare dall’inconscio. Una strizzatina d’occhio alla fredda elettronica nordeuropea e all'enigmatico calore
downtempo dei
Portishead allieta il sonno vigile dell’ascoltatore di “Wishin' Well”, subito prima della nuova parentesi
rockabilly-blues di “Say It”, a tratti somigliante a certi episodi siglati a nome “Bluebob” (progetto dello stesso Lynch con il chitarrista John Neff).
“We Rolled Together” mantiene vivo il filone
noir caro al regista, mentre nello
spoken robusto di “Sun Can’t Be Seen No More” – in cui il figlio ventunenne di David, Riley, si presenta come valente chitarrista – affiora finalmente il timbro irregolare e strozzato della voce del cineasta. Dietro le seducenti incursioni sintetiche “I Want You”, sembra quasi nascondersi l’ex-diabolica mente di
Trent Reznor, per cui Lynch ha anche diretto l’ultimo video dei
Nine Inch Nails, “Came Back Haunted”.
La bellezza diafana e sospesa di “The Line It Curves” apre l’ultima sezione dell’album, che si ricongiunge ad atmosfere decisamente più vicine alle composizioni dell’
alter ego musicale di Lynch,
Angelo Badalamenti. Il mellifluo riverbero di chitarra di “Are You Sure” e la voce immacolata della svedese
Lykke Li in “I’m Waiting Here” – impossibile non pensare a Julee Cruise e al suo “Floating Into The Night” – richiamano alla memoria i capolavori assoluti girati negli anni 90 dal regista di Missoula.
Certo, era inverosimile aspettarsi il seguito di un lavoro complesso come “Industrial Symphony No. 1”. Ma l’innata capacità di questo artista a tutto tondo – che all’inizio voleva “solo” diventare un pittore – di trasformarsi in un timoniere imperturbabile, che nella notte naviga lento tra gli incubi più tetri e i sogni più celestiali, è ancora sorprendente.
David Lynch è in grado di fermare il tempo della coscienza, di sezionarlo in centinaia di frammenti e di ricostruirlo a piacer suo, senza l’ossessione ingombrante di dover spiegare le sue scelte. E così fa con la musica.
17/07/2013