Da oltre dieci anni Lana Del Rey entusiasma gli animi di mezzo mondo. Seduce, stravolge, divide: ogni sua uscita è fuoco che arde a prescindere. Due lustri di candore pop, finezze d'ogni sorta, provocazioni, incursioni mainstream, ritorni underground, videoclip ammiccanti scopiazzati dalla concorrenza - ammesso che esista qualcuna che negli ultimi anni possa competere con la sua grazia canora - spiazzanti featuring, concept letterari e chi più ne ha più ne metta. Insomma, ogni nuovo album della cantautrice statunitense è un evento anticipato da un'attesa spasmodica per molti. Qualcosa che esula dai circuiti musicali. Dalle code più scontate. Lana Del Rey non è soltanto un unicum nel panorama mondiale. È semplicemente l'ultima autentica stella di un modello pop che riesce a mescolarsi senza mai perdere la propria identità, senza mai rinunciare a quell'eleganza che non si coltiva o si apprende col tempo, ma che è parte costitutiva del proprio codice genetico e artistico.
Ci sono quindi molte ragioni per le quali Lana Del Rey non può essere confusa con le star usa e getta della moderna discografia internazionale, ma la più importante resta l'aver affermato e ribadito il ruolo della figura femminile nel mondo del pop-rock. Che le spetti il titolo di autrice a tutto tondo è ormai assodato. Dopo oltre settanta canzoni sparse nei cinque dischi che ne hanno fatto un'icona, non si può avere nessun dubbio sullo stile personale e distintivo di Lana Del Rey, al punto che la critica oggi imperante rivoltale è quella di non cambiare registro. Ma la verità è che quel pathos alla David Lynch, quel languore west coast, e quel lirismo narcolettico, ripetitivo e malinconico, sono una cifra stilistica molto ben definita e riconoscibile.
Lana Del Rey riesce a far parlare di sé anche solo pubblicando in anteprima la copertina di questo nuovo disco, il pericoloso seguito di "NFR", un'immagine che ha attirato sia critiche puramente estetiche, in quanto ritenuta per alcuni una delle più brutte copertine di sempre, sia concettuali e ideologiche, avendo attenuato con il bianco e nero il contrasto tra donne bianche e donne di colore. Questioni di lana caprina, è il caso di dire, essendo lo scatto usato per la copertina un'istantanea che vuole solo cogliere un momento conviviale autentico tra donne che sono riunite in nome dell'amicizia e del reciproco rispetto e sostegno. La messicana Valerie, le care amiche Alex e Dakota Rain, nonché la dolce Tatiana sono donne che fanno parte del mondo di Lana e quindi parte formante di quel che oggi lei rappresenta per le donne: l'affermazione senza l'aiuto di nessun uomo dietro le quinte, anch'essi al limite ammessi nel cerchio degli amici, ma non dell'universo femminile narrato dalla musica dell'artista americana.
"Chemtrails Over The Country Club" prosegue nella destabilizzazione dell'intellettuale-chic americano e della concezione maschile della musica folk, entrando con più decisione nell'immaginario cantautorale di Joni Mitchell, Joan Baez e Stevie Nicks. Una scelta che trova la consacrazione nella bella versione di "For Free" di Joni Mitchell con Weyes Blood che ruba la scena con un'interpretazione che confonde la percezione al punto da indurti a pensare alla voce dell'autrice del pezzo. Ma non è solo in questo insolito finale che viene fuori la sacralità stilistica del folk della Laurel Canyon Boulevard degli anni 70. La forza residua della controcultura nata in quei luoghi è al centro delle eleganti citazioni folk, rock e blues di "Dance Till We Die" e delle delizie acustiche di "Yosemite".
Nel fluire più omogeneo di "Chemtrails Over The Country Club" si nascondono poi prevedibili ripetizioni dei cliché creativi dell'artista, con esiti a volte non molto soddisfacenti, al netto dell'onnipresente grazia ("Let Me Move You Like A Woman"), o con introspezioni che non resistono al trattamento minimal della scrittura e degli arrangiamenti ("Breaking Up Slowly").
L'album mantiene infatti quote basse. Una scelta ovviamente voluta, che quantifica un cambio di passo vellutato. Ogni traccia è una piccola grande carezza. Su tutte, però, svetta "White Dress", introdotta dal piano e da un sospiro angelico: cinque minuti e mezzo di poesia sussurrata e trattenuta. Il canto è finemente appartato. Lana incarna così le fattezze di una sirena del deserto. Un ossimoro metaforico che definisce un brano in apparenza spoglio ma in realtà profondo come il mare. Una canzone che spiazza e disorienta con quel melange di nostalgia senza alcuna enfasi che scorre su tonalità bianche e nere. C'è un nuovo modo di intendere quella cosa chiamata noir. Una nuova estetica dell'anima che passa attraverso le note di un'apertura destinata a entrare nella storia della sua discografia, e non solo.
Smaltita l'estasi iniziale, si procede tra un tocco di surf music ("Tulsa Jesus Freak"), una citazione involontaria di "One" degli U2 ("Dark But Just A Game") e un registro folk più intimista ("Not All Who Wander Are Lost"). Momenti di quiete pastorale e folate improvvise, senza mai alzare i toni, che non smuovono le acque di un progetto gradevolmente uniforme. A parte la sopracitata e irraggiungibile "White Dress", in questo lento e gradevole divenire, Lana Del Rey alza enormemente la posta anche in "Wild At Heart", dominata da arpeggi ed epiche aperture melodiche che rasentano i confini del soul.
"Chemtrails Over The Country Club" è al contempo il punto d'arrivo e una svolta elegante in vista di un futuro ancora luminoso. Un disco in cui la semplicità gioca un ruolo chiave, e i cui punti di forza sono la mestizia e la riflessione (in quest'ottica l’irresistibile mantra della title track ne è perfetta sintesi). L'ennesimo centro di una carriera inimitabile.
19/03/2021