Proprio quella sua voce strozzata, a volte sorda, per la quale fin dall'infanzia nel natio Ohio veniva presa in giro ogni volta che apriva bocca, ha reso oggi Macy Gray una delle più singolari cantanti del rhythm'n'blues americano. Perché la prima caratteristica che colpisce di Macy Gray è quella sua particolarissima voce rasposa, così strana che era inevitabile non passasse inosservata ricevendo biasimi e consensi. "Quand'ero piccola - racconta - ogni volta che parlavo c'era sempre qualcuno che mi faceva il verso. E così smisi di parlare in pubblico a meno che non fosse assolutamente necessario. Mai e poi mai avrei pensato di fare un giorno la cantante".
Di sicuro però, fin da ragazzina, Macy Gray è sempre stata una grandissima fan della musica black. Il suo mito giovanile è Prince. Poi si aggiungono le star hip-hop, da LL Cool J ai Run DMC, dai Beastie Boys ai Public Enemy. Ma tra i suoi ascolti ci sono anche gli artisti della collezione discografica dei genitori: Aretha Franklin, James Brown, Stevie Wonder, Nina Simone e Sly & Family Stone. Per parecchi anni il suo sogno è di diventare dottore, ma al momento di iscriversi al College decide che avrebbe tentato la carriera come produttrice e sceneggiatrice cinematografica. Per questo motivo trasloca a Los Angeles, dove si iscrive all'USC Film School.
La sua storia personale è piena di momenti bui, dal tentativo di suicidio ai tempi della scuola ai suoi complessi per la magrezza, dalla sua voce sofferente alla sua tendenza a essere una "bugiarda patologica". Momenti che saranno rivissuti e in parte esorcizzati nelle sue canzoni.
Nella metropoli californiana comincia la sua gavetta nel mondo musicale. Un gruppo di amici la invita a scrivere canzoni. Un giorno, al momento di registrare su demo le sue liriche, la cantante che le doveva interpretare non si presenta, così proprio l'autrice ne prende il posto. In quell'occasione incide anche una cover di Billie Holiday "God bless the child". Il demo comincia a circolare a Los Angeles, tanto che il leader di un gruppo jazz che suona nel circuito dei grandi alberghi chiede a Macy di unirsi alla band come vocalist femminile. Ma la Gray non ha ancora acquistato fiducia con la sua voce, quella confidenza necessaria tra un cantante e il suo strumento, o più semplicemente non le tornano alla mente situazioni di scherno vissute qualche anno prima. A vincere la sua esitazione sono soprattutto i 100 dollari al giorno che le offre il gruppo jazz.
Nel frattempo, mettendo qualcosa da parte, il 28 agosto del 1998 Macy Gray riesce ad aprirsi un coffee shop a Hollywood, il "We Hours", aperto nei weekend dall'una alle cinque del mattino, in cui si esibisce col suo gruppo. Un locale minuscolo che si può riempire anche solo con i soliti amici. Sta di fatto, però, che grazie alle performance di Gray, ogni sera il "We Hours" si riempie e inizia così a fasi conoscere come club trendy della città. Cominciano ad arrivare i musicisti che contano. Roots, il produttore di Erykah Badu, e Tricky, che si uniscono alle jam session di Macy e del suo gruppo. Il passo al contratto discografico non tarda, anche grazie al contatto con Andrew Slater, il produttore di Fiona Apple e dei Wallflowers.
Quando comincia concretamente a pensare al lavoro di debutto, insomma, Macy Gray ha già guadagnato una certa notorietà. Eppure, piuttosto che richiedere produttori di grido o musicisti celebri, pretendere solo di lavorare con gli stessi amici che le erano stati accanto nel "We Hours". Soprattutto quelli con cui si sente più in sintonia, come i chitarristi Arrik Marshall (già con i Red Hot Chili Peppers) e Blackbird McKnight (Funkadelic).
Il suo debutto del 1999 si intitola On How Life Is, un album in cui mescola sapientemente e razionalmente sonorità contemporanee del funk, soul e hip hop ma anche quelle più "classiche", come lo swing. Ogni suono si trova li perché volutamente messo per raggiungere un determinato scopo. Macy Gray non solo affascina per il suo particolarissimo canto, ma anche per i suoi testi intensi, dedicati prevalentemente ai temi dell'amicizia e dei rapporti interpersonali. Gli spettri più bui dell'infanzia vengono esorcizzati in un trionfo di suoni e di sensazioni, di gioia e felicità. Così esaltante da sembrare spudoratamente sensuale. Trainato da due hit come "Do Something" e soprattutto "I Try", l'album diventa un grande successo in tutto il mondo raggiungendo quota 7 milioni di copie vendute.
Nel successivo The ID quella sfrenata voglia di dire tutto senza più trattenersi prende il sopravvento. A cominciare dall'inizio con un violento flash sulle sue psicosi: "Fai riferimento su una psicopatica/il tuo modello è in terapia...", sono alcuni dei suoi versi. "Mi vedete come una psicopatica? Lo ero - ha raccontato -. Sono stata portata di corsa in ospedale un paio di volte. Sono soggetta a forti depressioni, per cui ho i miei giorni così, tutto qua. Incontro sempre persone che dicono di amarmi e di considerarmi un punto di riferimento. Li saluto e subito dopo vado in terapia. Mi chiedo cosa direbbero se sapessero come sono realmente".
Non riuscendo a tenere a bada il suo estro, Gray tende a strafare e a cadere spesso nel peccato di presunzione. Certamente l'intero lavoro è apprezzabile per una confezione di alta fattura, grazie anche al produttore Roots e agli ospiti coinvolti, da John Frusciante dei Red Hot Chili Peppers a Erykah Badu, che duetta con lei nella delicata "Sweet Baby" (primo singolo di successo estratto), fino all'aggressiva Angie Stone, presente in "My Nutmeg phantasy". Ma le troppe citazioni e i rimandi agli stili più disparati - funk, soul, disco, rock, rap - rendono il disco schizofrenico, al punto da farne smarrire il vero senso. L'esuberanza creativa e ironica, la verve spumeggiante e bizzarra non sono però difetti che si possono rimproverare a Macy Gray. Quando tali elementi convergono verso un unico scopo, come nel disco d'esordio, ci fanno conoscere e apprezzare una delle artiste con le corde vocali e la personalità "black" tra le più singolari degli ultimi anni.
The Trouble With Being Myself (2003), però, è un mezzo passo falso. Non mancano ritornelli accattivanti, dall'iniziale "When I See You" alla "It Ain't The Money" impreziosita dal cameo di Beck. Troppo spesso, però, il disco affoga in banalità pop patinate, seppur sempre arrangiate e interpretate con classe. Anche le ballate ("She Ain't Right For You", "Jesus For A Day") non graffiano. E così a salvare l'ascoltatore dagli sbadigli, provvede semmai l'unghiata soul di "Jesus For A Day" e la fresca verve di "Happiness".
Macy Gray si conferma ugola tra le più pregiate in circolazione, ma stenta a mettere a fuoco la sua foga in un progetto musicalmente compiuto.
Quattro anni dopo, esce Big (2007), frutto del sodalizio con Will.I.am dei Black Eyed Peas, e nato dalla collaborazione con altri nomi di punta, come Natalie Cole, Justin Timberlake, Fergie, Nas e Linda Perry. Dodici canzoni che riflettono le esperienze di Macy nel corso degli ultimi anni: l’abbandono da parte del marito (“Finally Made Me Happy”, “Shoo Be Doo”, “Get Out”), la sua condizione di mamma single (“What I Gotta Do”, “Okay”), i ricordi dei tempi andati (“Ghetto Love”, “Glad You’re Here”), le speranze di trovare la persona giusta (“One”) e la possibilità d’invecchiare con lui (“Slowly”).
Ci sono anche un paio di numeri in cui Macy si prende gioco delle preoccupazioni della società dei consumi, come “Treat Me Like Your Money” e “Strange Behavior”. Musicalmente, si spazia dalle radici soul, alla ritmica funk, a un sound moderno e ballabile.
Un confettino ben rifinito, questo Big, che lascia però una stucchevole sensazione di prevedibilità e di "già sentito". Macy Gray, comunque, resta a galla, nonostante tutto. E' sempre più richiesta come ospite in produzioni di successo e ha anche iniziato una carriera parallela sul piccolo e sul grande schermo. Se son rose, fioriranno...
Contributi di Stefano Conti