The Weeknd

My Dear Melancholy,

2018 (XO / Republic) | electro-r&b, soul-step

Gli ultimi due album pubblicati da The Weeknd, penalizzati da una scrittura meno ispirata che in passato e appesantiti da troppi riempitivi, hanno forse tradito le speranze di chi vedeva in lui la più promettente stella dell’r&b mondiale. È però anche vero che essi hanno regalato ad Abel Tesfaye i due più grandi successi mainstream che potesse indovinare, rispettivamente coi singoli “Can’t Feel My Face” (da “Beauty Behind The Madness”, 2015) e “Starboy” (dall’omonimo disco, uscito nel 2016): due vere e proprie canzoni career-defining, suonate in ogni dove, le quali non solo hanno consegnato al canadese le chiavi d’accesso allo stardom della musica pop, ma gli hanno pure garantito un permesso di soggiorno a tempo indeterminato.

Con la leggerezza di chi non ha quindi nulla da perdere (e per il piacere di chi saprà coglierne il valore) The Weeknd è ora tornato con un breve Ep di sei brani, un lavoro che a sorpresa ci riconsegna - com'è intuibile già dal titolo - il lato più malinconico e appassionato della sua personalità artistica, quello che avevamo imparato a conoscere all’inizio della sua carriera e che pensavamo ormai relegato al passato. “My Dear Melancholy,”, ispirato dalla recente separazione dalla cantante Selena Gomez, è composto da sei meste ballate electro-r&b, notturne e glaciali come lo furono gli episodi più emozionanti di “House Of Balloons”, “Thursday” e “Echoes Of Silence" (i suoi primi tre, splendidi, mixtape). Sono ventidue minuti di dolore e struggimento, nei quali il falsetto di Abel emerge, lacerato, da un oceano di flutti sintetici e ombrosi.

In cabina di produzione troviamo nomi di prim’ordine, da Nicolas Jaar a Skrillex, da Guy-Manuel de Homem-Christo a Gesaffelstein (accreditato addirittura come featuring in “Hurt You” e “I Was Never There”), ma nessuno di questi aggiunge un tocco significativo a questo lavoro, che suona fin troppo personale e sentito per lasciare spazio a contaminazioni. L’umbratile funk-soul di “Try Me”, la paranoica tensione di “I Was Never There”, l’elegia sofferta di “Privilege” sono i punti più alti di un’opera forse priva della magia e della lussuriosa ambiguità degli esordi, ma alimentata dalla medesima vena creativa e per questo, ora più che mai, convincente e riconciliante.

(26/04/2018)

  • Tracklist
  1. Call Out My Name
  2. Try Me
  3. Wasted Times
  4. I Was Never There
  5. Hurt You
  6. Privilege


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