Gesaffelstein è il moniker di Mike Levy, un ragazzo francese poco più che trentenne di cui si era fatto un gran parlare sul finire del 2012 grazie all'uscita di alcuni splendidi remix e di un capolavoro di album, un misto di dark-techno underground dal titolo “Rise Of Depravaty”.
Violenta, oscura o forse più elegantemente noir, l'elettronica firmata Gesaffelstein risultava assoluta, pura, raffinata oltre che monumentale. Ma il successo e il moltiplicarsi di serate sia in Europa sia oltre oceano non portano alla giusta evoluzione del suo talento che, inquinato da drammatiche e drastiche dinamiche di commercializzazione, perde ogni sua spontaneità e purezza. Ed ecco che la sofisticata etichetta Bromance Records scompare, rimpiazzata dalla forse più popolare Parlophone Uk e che i pezzi, prima esclusivi e limitati in numero, appaiono improvvisamente moltiplicati, dando vita a un album che di epico questa volta ha solo il nome: “Aleph”. Quattordici tracce in tutto, in cui sicuramente emerge un più attento lavoro di rifinitura e limatura, un'accurata metodologia e logica di composizione, funzionali nel dar vita a una ottima produzione, un prodotto finito e curato in tutte le sue parti, ma decisamente meno ricco in qualità e originalità di contenuti.
Bisogna arrivare alle terza traccia, “Nameless” per assaporare qualcosa di vagamente più interessante e vicino a territori “dark”. Ma l'elemento che probabilmente rovina il sano lavoro di synth a cui Gessafelstein era un tempo devoto sono le voci inserite qua e là su pezzi che avremmo preferito sentire solo in versione strumentale. Ne è un esempio eclatante “Destinations”, dove la maestosa sacralità della base musicale, dall'architettura molto vicina a quella di “Viol”, viene banalmente sopraffatta da una voce parlante femminile.
Anche buoni tentativi di sperimentazione, come “Hallifornia” e “Aleph”, sembrano dimenticarsi dei cerimoniali dark di un tempo, per avvicinarsi invece a una dimensione più vicina al rap e alla dance anni 80. Bene, infine, “Wall Of Memories”, dove l'incidere tagliente e claustrofobico dona la sensazione di entrare in un mondo incantato e malvagio, che richiama le atmosfere di un film d'animazione di Tim Burton. “Duel”, invece, è il pezzo dance che non avremmo mai voluto sentire.
Gesaffelstein dimostra con questo lavoro la difficoltà di coniugare la quantità delle sue uscite con la qualità che era stato in grado di garantire in un primo momento. Nel complesso, un disco non adeguato alle aspettative, ma forse più idoneo a soddisfare le pure logiche di mercato.
03/02/2014