Se vi è una ragione d’essere del termine cult-band, questa è da attribuire all’esistenza di gruppi come i Blue Nile, un trio che ha raccolto intorno a sé una mitologia che non ha eguali, al punto che i fan del gruppo scozzese conoscono qualsiasi piccolo accenno sonoro, o tutto quel che c’è da sapere sulla loro insolita carriera di musicisti. I Blue Nile sono la band più cult tra tutte le cult-band.
Questa biografia non è pensata solo per i fan del gruppo, ai quali nulla di ciò che potrò scrivere suonerà nuovo, questo racconto è per chi ha avuto un incontro casuale con un loro album o una loro canzone senza mai andare oltre e soprattutto per chi non ha ancora incrociato la loro musica.
In ventidue anni di carriera i Blue Nile hanno inciso solo quattro album, sprezzanti delle regole del mercato discografico, onesti e coerenti, scrupolosi e rispettosi del loro pubblico, al punto da restare per anni in disparte senza reclamare notorietà o fama. Anche una celebre penna nostrana come Riccardo Bertoncelli, ha ammesso di aver scoperto il gruppo scozzese solo grazie alla segnalazione di Andy Partridge degli Xtc. Parafrasando il titolo di un album di Frank Zappa e dei Mothers of Inventions, potremmo definire la loro filosofia artistica in “We’re only in it for the music”.
La purezza estatica e solida della loro musica ha garantito un costante flusso emotivo del pubblico nei loro confronti, chiunque abbia apprezzato le loro creazioni non ha potuto fare a meno di ubriacarsi con i preziosi distillati armonici della band.
Il rapporto poco felice del gruppo con la notorietà e il successo è evidente in due momenti-clou della sua storia: dopo l’uscita dell'album d'esordio, A Walk Across The Rooftops, un gruppo di amici di Paul Buchanan discute su una band scozzese che ha inciso un album incredibile, quando Paul rivela di essere uno dei componenti di quel gruppo, nessuno gli crede; qualche anno dopo, durante la prima tournée in America (per l’album Peace At Last), gli organizzatori, ignari della loro produzione musicale, accolgono con scetticismo il tour del gruppo, il sold-out quasi istantaneo delle dieci date stupisce e incuriosisce gli addetti ai lavori.
Nel raccontarvi la storia dei Blue Nile urge fare un primo passo portando i tre musicisti di Glasgow fuori dall’anonimato: voce e chitarra per Paul Gerard Buchanan nato il 16 aprile del 1956 e laureato in letteratura e storia medievale, tastiere ed electronics per Paul Joseph Moore, nato il 19 marzo del 1957 e laureato in elettronica, e infine al basso Robert Bell, laureato in matematica, nato il 22 agosto del 1952.
Paul Buchanan e P.J. Moore si conoscono già da ragazzi, la loro amicizia si rafforza ai tempi dell’università quando incontrano Robert Bell, con il quale entrano subito in sintonia scambiandosi dischi e altre suggestioni culturali.
Il sogno dei tre ragazzi di Glasgow non è quello di far parte di una band per poterlo sbandierare ad amici e conoscenti, le loro prime esperienze da musicisti sono spensierate e prive di ambizioni.
Finiti gli studi, P.J. Moore viene assunto dalla Tv scozzese come ingegnere del suono, Robert Bell gestisce un'agenzia di informazione giornalistica locale e Paul Buchanan insegna, ma solo con incarichi part-time. L’interesse per la musica resta primario e tra un disco di colonne sonore di musical comprato da Woolworths (Robert Bell), un sampler con brani di Who e Jimi Hendrix (Paul Buchanan) e un’antologia della Wea, "The Age Of Atlantic" (P.J. Moore), Bell e Buchanan mettono su la prima band, Night By Night (nome ispirato dall’album "Pretzel Logic" degli Steely Dan) scrivendo anche alcune canzoni (“Rio” e “Stay”).
Paul e Robert invitano P.J. a unirsi a loro, e con Brian Doran (batteria) e Des McGoldrick (chitarra), danno vita ai McIntyre, un gruppo fortemente influenzato dagli Steely Dan e dal loro raffinato e corposo sound. Alcuni demo (“Flags“, “Undercover” e “We’re Not In The Movies” i più noti) allineano il suono ad altre band scozzesi devote al gruppo americano di Fagen e Becker (Deacon Blue, Hue And Cry, Hipsway). La loro musica è ben lontana dalla rarefazione dei Blue Nile, ma già si intravedono nei testi quegli elementi lirici e quelle suggestioni noir che caratterizzeranno il futuro della band.
Vita breve per i Mcintyre, che dopo il mancato accordo discografico con la Chrysalis si sciolgono. Moore, Bell e Buchanan decidono di continuare come trio, formando i The White Hats, prendendo il nome, ancora una volta, da una canzone degli Steely Dan (“Only A Fool Would Say That”), ma la grande stagione del pop scozzese non è ancora arrivata e i loro concerti non raccolgono interesse, al punto che una sera il pubblico è inferiore numericamente alla band.
Il clamore suscitato dalla Postcard e da gruppi scozzesi come Orange Juice e Josef K cambia lo scenario e per Paul, Robert e P.J. è tempo di fare le cose sul serio. Il trio fonda un’ etichetta (Peppermint records), il cui marchio farà la sua comparsa su un 45 giri di The Persian Rugs, “Burning Passion Pain”, e sull’esordio del trio per Rso, ovvero il singolo “I Love This Life”.
I Beatles, Marvin Gaye e Mahler sono i punti di riferimento delle prime sperimentazioni del gruppo, altresì fautore di un suono essenziale e a tratti minimale, quasi impressionista. La strumentazione è minima: una chitarra, un basso, un organo farfisa e un piccolo synth.
Con uno sparuto numero di canzoni, i Blue Nile si recano ai CastlesoundStudios, nel tentativo di mettere a frutto le prime idee. Robert Bell aveva precedentemente prodotto e inciso proprio in questi studi il singolo dei Persian Rugs, che tra i credits vedeva anche il nome di Paul Moore come musicista.
L’incontro con il tecnico del suono Calum Malcolm si rivelerà fondamentale per il futuro del gruppo: la sintonia con l’ex-componente dei disciolti The Headboys è istantanea, il futuro produttore della band affascina il trio con il suo raffinato e malinconico mood sonoro (tra le sue produzioni Aztec Camera, Orange Juice, Go-Betweens).
Dopo i primi demo, il suono vira verso atmosfere meno americane e più neo-romantic, “I Love This Life” anticipa le istanze neo-sinfoniche con una cascata di synth che simulano un ipotetico viaggio per immagini, il ritmo è ancora pulsante e frenetico, ma ben presto anche questa attitudine scompare dal loro
sound per essere solo in parte ripresa nel terzo album,
Peace At Last.
Registrato negli studi Castelsound da Calum Malcolm, il brano viene accompagnato nel 7” da un'altra traccia, “Second Act”, un brano più rarefatto e melanconico che mette in risalto le doti di Paul Buchanan, viene così a formarsi un potenziale 45 giri.
Calum Malcolm viene contattato dalla Rso di Robert Stigwood, etichetta responsabile della pubblicazione dei due album di The Headboys (ex-band del produttore), le due tracce del gruppo scozzese finiscono così nelle mani dell’etichetta che decide di pubblicare il singolo d’esordio della band, che dovrà scegliere in fretta e furia un nome. Nascono così i Blue Nile, anche se l’esperienza discografica subirà uno stop inatteso e imprevedibile.
I rapporti con la Rso sono solo epistolari e la promozione non è delle migliori, Radio 1 non disdegna il brano e i passaggi radiofonici sono numerosi, il colpo di grazia arriva dopo solo due mesi: la Rso viene travolta dal fallimento: il film “Sgt Pepper’s Lonely Hearts Club Band” è un disastro commerciale,
Eric Clapton ha appena lasciato l’etichetta e i
Bee Gees hanno appena intrapreso una causa contro Robert Stigwood. La Rso viene liquidata prima della fine del 1981 e i Blue Nile sono di nuovo senza contratto.
Ancora una volta la figura di Calum Malcolm si rivela fondamentale per il futuro della band. La Linn è in cerca di un gruppo da scritturare per un disco che abbia tutte le caratteristiche tecniche adatte alle loro produzioni di componenti hi-fi e il produttore propone alcuni demo della band. Ivor e Markus Tiefenbrun (creatori della Linn) hanno appena messo a punto un nuovo giradischi, il Sondek Lp12, e la precedente esperienza discografica con l’etichetta Aloi si è rivelata infruttuosa e poco utile alle loro esigenze; Ivor è entusiasta delle canzoni ascoltate e mette sotto contratto i Blue Nile senza eccessivi vincoli produttivi. Calum coinvolge Nigel Thomas (presentato alla band da
Craig Armstrong) e anche se non compare mai nella formazione base, per molti è il quinto elemento della band (il quarto è considerato il produttore).
Essendo la prima produzione pop-rock per la Linn Records, i dirigenti della
label entrano in contatto con la Virgin Records per la distribuzione dell’album, fermo restando il loro ruolo nella promozione.
La genesi di
A Walk Across The Rooftops avviene tra difficoltà pratiche e di budget. La tecnica chitarristica di Paul Buchanan è acerba, il synth Roland-Jupiter di P.J. Moore ha possibilità limitate, ma la presenza di quattro elementi della Scottish National Orchestra, la produzione di Calum Malcolm e la forza creativa della band rendono possibile il miracolo.
L’esordio dei Blue Nile è ricco d’innovazione e di ricerca sonora, l’attitudine pop è stravagante, anzi sembra quasi negare se stessa attraverso sonorità orchestrali stridenti, nonché colte citazioni di Bela Bartok e
Terry Riley. L’eleganza
mainstream e quasi danzereccia del singolo “Stay” disorienta alcuni critici nostrani, che in maniera frettolosa liquidano l’album catalogandolo come
disco-music per elucubrati (Mucchio Selvaggio, 1984).
Non tutti sono in verità pronti a cogliere il cambiamento di quegli anni: è finita la stagione d’oro della
new wave e del post-punk, il metal imperversa, il grunge è alle porte (
Green River,
Melvins etc.) ma dovrà attendere almeno 5 anni per affermarsi in pieno (
Nirvana,
Mudhoney), quello che resta è un panorama musicale che si divide tra tentativi di restaurazione del
classic rock con predilezione verso il metal e l’hard-rock (emblematico il ritorno dei
Deep Purple) e un interessante flusso creativo in bilico tra gothic-dark e indolente malinconia.
Non v’è dubbio che le migliori pubblicazioni discografiche del 1984 siano in parte ascrivibili a questa tendenza neo-romantic dai toni plumbei, la 4AD è al nadir della sua produzione (
Cocteau Twins, “Treasure”;
Dead Can Dance , “S/T” ;
This Mortal Coil, “It’ll End In Tears”) ma è anche l’anno di “Brilliant Trees” (
David Sylvian), “Climate Of The Hunter” (
Scott Walker), “The Splendour Of Fear” (
Felt) e di “Broadcasting From Home” (
Penguin Café Orchestra), compagnia ideale per l’esordio degli scozzesi.
Le prime note dell’album (la
title track) non lasciano dubbi sulle intenzioni della band: il suono della
drum machine stride con il pizzicato della sezione archi, mentre il basso viaggia a
zig zag tra le note di piano, chitarra e tromba;
A WalkAcross The Rooftops suona diverso da qualsiasi altro album dell’epoca e il bello deve ancora venire. L’elemento chiave è comunque la voce di Paul Buchanan, tagliente come quella di
Sting, modulata con la stessa passione di Frank Sinatra, ma soprattutto capace di sottolineare una sola parola con uno spettro emotivo ampio.
Valga come esempio la superba “Tinseltown In The Rain”, dove la voce di Paul si libra senza più freni emotivi, mentre piano, basso, batteria e archi creano uno dei
groove più memorabili del pop-funk elettronico: un brano che più di qualsiasi altro mette in atto uno dei teoremi di Br
ian Eno, ovvero
dance music con elementi classici.
Il suono diventa di nuovo astratto e meno fisico in “From Rags To Riches”, con rumori elettronici e il suono circolare e ripetitivo delle tastiere che cita e omaggia Terry Riley e il suo capolavoro
“A Rainbow In A Curved Air”.
L’esuberanza di “Stay” apre la seconda facciata dell’album, il ritmo robotico e la progressione emotiva sono perfette, un brano pop ricco d’idee strumentali e atipiche soluzioni d’arrangiamento che, purtroppo, non fa breccia nelle classifiche inglesi.
Quando le note del piano introducono “Easter Parade”, è difficile non pensare alla miglior tradizione americana (Frank Sinatra) e a cantautori come
Tom Waits, una ballata intensa e notturna che i Blue Nile riproporranno tempo dopo in duetto con
Rickie Lee Jones.
Il suono legnoso delle tastiere di “Heatwave” si inebria di riferimenti etnici e di colte citazioni avantgarde, restando amabilmente dalle parti di quel romanticismo in bianco e nero che caratterizzerà il suono del trio scozzese: suoni di campane, ossa e il canto degli uccelli riempiono alcuni spazi armonici lasciati volutamente in sospeso.
Chiude le danze “Automobile Noise”, raro esemplare di pop industrial dai toni rarefatti e poco ossessivi, un brano armonicamente semplice, accarezzato da un minimalismo lirico pregnante, altresì cullato da un ritmo percussivo che ricorda un metronomo, sul quale si adagiano ipnotici arpeggi di tastiera.
A Walk Across The Rooftops è un album in cui nulla è lasciato al caso, ogni brano è un piccolo concentrato d’inventiva, non vi sono inutili riempitivi. Una canzone di Robert Bell, “St Katherine’s Day”, viene lasciata fuori solo perché ritenuta troppo romantica e personale (verrà inclusa nella ristampa
deluxe del 2012).
Una foto in bianco e nero di Paul, Robert e P.J. fermi davanti a una chiesa abbandonata viene scelta per la copertina del disco, che uscirà solo in vinile; è un’immagine perfetta per descrivere il loro
sound sofisticato, quasi immacolato, impressionista.
La stampa è affascinata,
Bono Vox lo cita tra i migliori album dell’anno, in Inghilterra arriva solo all’ottantesimo posto in classifica, ma in Australia, nel Nord America e in Europa diventa un album
cult e in Olanda raggiunge un inatteso successo grazie al singolo “Tinseltown In The Rain”.
Per i singoli estratti dall’album non vengono scomodati
outtake o inediti, tranne che per l’edizione in 12 pollici di “Tinseltown In The Rain” (“Regret”, un brano introspettivo e crepuscolare incluso anche nella compilation dedicata al fotografo italo-scozzese Oscar Marzaroli, “The Tree And The Bird And The Fish And The Bell”) mentre le
B-side dei singoli sono affidate a due strumentali (“Saddle The Horses”, ovvero “Automobile Noise” senza cantato, e “Heatwave-instrumental”).
Nonostante il sostegno del critico inglese Paul De Nojer e il plauso di Steve Lillywhite (che lo include tra i cinque album del 1984), i Blue Nile non riescono a vincere i pregiudizi di critica e pubblico nei confronti della nuova stagione del pop, la Linn nel frattempo affitta una casa a Gullane, vicino Edimburgo, nel tentativo di stimolare l’ispirazione per il nuovo album, ma l’unico frutto è un demo di “From A Late Night Train”, una delle canzoni più tristi mai scritte dal gruppo. La tensione è alta, la Virgin offre addirittura i Manor studios, ma i Blue Nile sono alla ricerca di nuove vibrazioni.
La band incide alcune canzoni ma nessuna di esse troverà mai luogo nei loro album, tra queste una versione più raffinata di “St Katherine Day”, alcune
cover version (“All The Way”, “Strangers In The Night”) e alcuni brani inediti (“Christmas”, “Broadway In The Snow”) tra i quali si segnala in modo particolare “Young Club”, un brano in cui il trio comincia a sperimentare quella tecnica di sottrazione sonora che lo porterà verso un suono meno possente e più essenziale. Girano strane voci su nastri bruciati o cancellati per errore, ma la verità è ancora oggi oggetto di discussioni e smentite da parte dei musicisti.
Il destino non sembra essere dalla loro parte, la morte del padre di P.J. Moore, il divorzio dei genitori di Paul Buchanan e la fine della sua storia d’amore con Judy McNichol mettono a dura prova i tre scozzesi, nel frattempo il successo del Live Aid riporta in auge vecchie star come
Elton John,
Phil Collins e i
Queen. Mentre il gruppo resta in
stand-by perché gli studi Castlesound sono stati occupati dagli It’s Immaterial (che nel 1990 pubblicheranno un album in perfetto stile Blue Nile, “Song”), Bell, Buchanan e Moore accettano l’offerta della Bbc, che commissiona una colonna sonora per un film-tv intitolato "Govan Ghost Story". Anche Channel 4 contatta il gruppo per una sigla televisiva di un programma d’arte, musica e
live performance: “Halfway To Paradise”.
Il rapporto con Channel 4 non finisce però qui: il regista Don Coutts li vuole in tv per una breve esibizione live, il gruppo accetta chiedendo di coinvolgere in questa esperienza
Rickie Lee Jones, grande ammiratrice del gruppo. Il tutto avverrà dopo la pubblicazione del secondo album, con una
performance che anticipa la
title track del nuovo album della cantautrice americana, “Flying Cowboy”, un’altra registrazione con una versione a due voci di “Easter Parade” non sarà utilizzata nel programma, tv ma vedrà la luce in un singolo dei Blue Nile (“Headlights On The Parade”).
Ritornato ai Castelsound sotto la guida di Calum Malcolm, il gruppo ritrova in modo prepotente e inatteso l’ispirazione, incidendo in soli cinque giorni “Let’s Go Out Tonight”, “Headlights On The Parade” e “From A Late Night Train”, anche se il primo brano a essere perfezionato e rifinito sarà “The Downtown Lights”, che la band considera come punto di riferimento per la realizzazione del nuovo album.
Il suono è monocromatico, a volte noir, minimale ma arioso, elettronico ma ricco di soul, non gioioso ma compassionevole, tutto è più intimo e diretto.
Il gruppo coinvolge anche i fan nel progetto, scegliendone alcuni al fine di testare l’impatto delle canzoni incise: il
sequel di
A Walk Across The Rooftops è pronto e s’intitola
Hats.
Hats, quattro lettere, una parola, un ossimoro con il quale la generazione post-punk recupera i germogli di un sentimento ancestrale: l’amore.
Un perfetto “Honey At The Core” messo a punto da tre musicisti vogliosi di riappropriarsi della canzone romantica e sentimentale, quella vissuta e sofferta di
Billie Holiday, quella elegante e ruffiana di Frank Sinatra e anche quella ricca di pudore dei primi vagiti beat.
Hats, quattro lettere che sostituiscono l’ormai uniformato “Love”, vestendo a nuovo quell’arcaico impulso, fautore d’incontri tra uomini e donne, desiderosi di comunicare solo attraverso il lessico della passione.
Un
cult-movie in bianco e nero, dove lo scenario si sposta dalle strade fumose di New York o Chicago a quelle piovose di Glasgow, un collage di sette mini-sinfonie dove tecnologia ed emozione raccontano di amori urbani e notturni consumati sotto la pioggia, tra bus all’ultima fermata e le luci al neon dei bar.
L’album consolida tutte le qualità della band: la voce di Paul Buchanan è più ricca di soul, l’evoluzione tecnologica offre sonorità elettroniche più calde e il tocco del basso di Robert Bell è più calibrato e asciutto, le tentazioni
avantgarde e le dissonanze a volte cacofoniche dell’esordio sono più temperate, sembra quasi che la band abbia passato gran parte del tempo in studio eliminando tutto il superfluo, lasciando all’ossatura delle canzoni tutto il potere emotivo. La vulnerabilità e le tensioni che animano le registrazioni danno forma a un romanticismo quasi
melò o da film hollywoodiano, sette brani che suonano come sette piccoli classici.
Il morbido beat elettronico che introduce le note di “Over The Hillside” è il cuore pulsante dei 35 minuti di
Hats, un mantra soul che accumula immagini di vita quotidiana in una sequenza ricca di pathos che si libera della tensione nel romantico
refrain dell’orchestra.
Come in un film, le luci dello schermo si confondono con il mondo reale e cala il silenzio: “The Downtown Lights” è un corto, un affresco neorealista dove il traffico, le luci della città, le strade che si svuotano e gli ultimi bus si muovono in sincrono, mentre la musica incastra figure geometriche pulsanti con variazioni cromatiche simili a quelle di un caleidoscopio. “The Downtown Lights” è una moderna danza sufi che inneggia all’amore, un autentico capolavoro. Solenne e introversa, “Let’s Go Out Tonight” ripristina il tono narrativo di “Over The Hillside”, una ninna nanna per adulti che non hanno mai smesso di sognare una notte d’amore.
“Headlights On The Parade” apre il lato due con un giro di
synth-bass, avvolto da tastiere e un pianoforte in piena libertà armonica, una
pop-song amara e solitaria che non fa breccia nelle classifiche (72° in Uk) nonostante il tono più epico e lineare. Di converso, “From A Late Night Train” rappresenta l’esatto opposto di “Headlights On The Parade”, la malinconia è palpabile in ogni spazio lirico, piano e voce reggono un arrangiamento volutamente spartano, dove i pochi inserti strumentali alieni (la tromba) hanno il fascino dei ricordi: è una ballata da sonnambulo più che da sognatore, intanto cala il silenzio dell’oscurità.
Prosciugati sentimenti e speranze, Paul Buchanan si chiede dove sia l’amore, ma non troverà risposta neanche in quella che può definirsi la più amara e solitaria canzone mai scritta dai Blue Nile, “Seven A.M.”; il verso “Stop! Go” risuona come l’ultima evocazione spirituale di un’anima turbata e sconfitta.
Hats, come tutti i grandi album neo-romantici, non offre soluzioni o speranze, le note della conclusiva “Saturday Night” non promettono una redenzione finale, ma solo contemplazione e stupore, due emozioni che la vita può offrirti attraverso l’incontro con una ragazza ordinaria che riesce a rendere speciale il tuo sabato sera, i violini si elevano maestosi celebrando l’epifania della quotidianità.
Hats è un album sofferente più che sofferto, meditativo piuttosto che meditato, il frutto di un periodo molto complesso per i tre musicisti, ma il linguaggio è universale, la musica è limpida, come uno specchio, un diario sonoro in cui ognuno di noi può ritrovarsi per esorcizzare il dolore e la solitudine. In questi 35 minuti di
new-symphonia, l’amore trascende la norma e diventa biografia dei sentimenti comuni, universali: è nato il post-romanticismo industriale.
L’enorme vitalità creativa di
Hats è certificata anche dalla qualità degli inediti e delle
B-side dei tre singoli, oltre alla versione con
Rickie Lee Jones di “Easter Parade”, vengono pubblicati ”Halfway To Paradise” (sigla dell’omonimo programma tv), “OurLives” (un brano in tre movimenti composto per uno spettacolo teatrale ) e l’eccellente “The Wires Are Down”, un altro inedito “Christmas” verrà pubblicato nella recente edizione
deluxe di
Hats, mentre la suggestiva “Broadway In The Snow” resterà purtroppo inedita.
La stampa inglese è entusiasta di
Hats (comparirà in tutte le liste di fine anno) ma l’album si ferma al 12° posto della classifica inglese e i singoli non vanno oltre la cinquantesima posizione; il critico del Nme Stuart Maconie definisce il brano ”The Downtown Lights” "troppo grande per poter diventare un successo" sostenendo che "il suo valore va ben oltre". In quegli anni la Scozia vive un fermento culturale incredibile, per la prima volta artisti famosi come Dario Fo e Frank Sinatra la scelgono come palconscenico, i club e i bar pullulano di nuovi fenomeni, tra questi Jerry Burns, una talentuosa cantante che il gruppo incontra nella pizzeria Di Maggio: è l'autrice di un piacevole album omonimo, fortemente influenzato dal suono dei Blue Nile.
Per la band è ora di sciogliere le riserve e affrontare il palco. Il primo concerto non va oltre gli 87 minuti, la tensione è alta e il gruppo suonerà solo per una seconda data in Inghilterra prima di volare in America.
E’ Ron Fernstein il manager del tour americano: la sua esperienza con musicisti del calibro di
Mary Chapin Carpenter,
Suzanne Vega e Shawn Colvin è perfetta per i Blue Nile. Steve Gaubory, Larry Saltzman (già chitarrista di
Paul Simon) e Nigel Thomas completano la
line-up che, al di là dei timori degli organizzatori, ottiene un grande successo di pubblico con date
sold-out e una resa live eccellente. Il tecnico del suono è
Robin Danar, musicista americano che ospiterà
Paul Buchanan nel suo album solista. Un documentario, “Flags And Fences”, raccoglie in mezz’ora suoni e commenti della prima esperienza americana del gruppo, che include in repertorio anche una cover (“I Left My Heart In San Francisco”) e consolida la sua fama negli States, dove raggiunge un buon successo (108° posto nella classifica di Bilboard).
I Blue Nile incantano il pubblico, che partecipa in religioso silenzio alle loro
performance; la musica è l’unico linguaggio ammesso, il gruppo rinuncia anche al consueto
merchandise dei concerti, confermando modestia e integrità come elementi essenziali della propria identità artistica. Buchanan, però, dietro il successo di
Hats, scorge una minaccia per la loro
privacy e decide di lasciare Glasgow per Los Angeles. Le pressioni per un nuovo album del gruppo ne incrinano il rapporto con le case discografiche Linn e Virgin, mentre la A&M viene acquisita dalla Polygram. Ben presto, così, la band resta senza contratto.
Una storia d’amore cambia la vita di Paul Buchanan e il destino del gruppo, sarà infatti Rosanna Arquette l’artefice dell’incontro tra Paul e Mo’ Ostin, ex-ragioniere di Frank Sinatra e della sua etichetta discografica Reprise, che nel frattempo The Voice ha ceduto alla Warner Records.
Ostin diviene presidente della Warner Reprise e dopo aver conosciuto Paul (grazie ad Arquette) gli propone un doppio contratto, uno per il gruppo Blue Nile per la sezione discografica e uno come autore per la sezione editrice Warner Music corp., quest’ultima depositaria di una lunga serie di canzoni scritte per altri artisti.
Per le registrazioni del nuovo album la band sceglie un diverso approccio creativo: le canzoni vengono elaborate durante un lungo periodo di viaggi. Francia, Italia, Olanda, Irlanda e New York sono le culle urbane delle dieci nuove canzoni di
Peace At Last, e Paul dichiarerà alla stampa che dopo le tragedie è ora di passare alla commedia, confermando un diverso linguaggio sonoro, più moderno e fruibile.
Al posto dell’immacolata perfezione dei due precedenti album, la band fa subentrare una più intensa religiosità lirica e delle sonorità più soul e gioiose; la vita familiare e la fede sostituiscono la sofferenza e la malinconia.
Il terzo album dei Blue Nile non replica la formula di
Hats o di
A Walk Across The Rooftops; l’infanzia e il simbolismo religioso occupano ora l’immaginario di Paul che, a scanso di equivoci, sceglie come apertura dell’album “Happiness”: un suggestivo folk-gospel (con un coro spiritual ascoltato in una chiesa) che vibra con intensa spiritualità intorno ai semplici accordi della nuova chitarra acustica Gibson, acquistata da Sam Ash, un negozio di strumenti musicali che Paul e Robert hanno frequentato lo stesso giorno uno all’insaputa dell’atro, notando proprio quella chitarra che sembrava stesse lì in attesa di Paul. Ed è sempre alla Gibson che spetta l’onere e l’onore di introdurre “Tomorrow Morning”, una ballata dalle deliziose movenze
upbeat, una perfetta sintesi tra il romanticismo
noir e la nuova
way of life del gruppo; in un primo momento la band realizza un video per la promozione del brano, ma la scelta del singolo cade su ”Happiness”.
La passione per il soul di
Marvin Gaye e le prime esperienze con i McIntyre ritornano prepotenti in “Sentimental Man”, un funky-soul avvincente ricco di ritmo e nuove soluzioni sonore frutto della passione di P.J. Moore per le infinite possibilità date dal computer.
Che la disciplina sonora del gruppo si sia modificata lo si avverte nella frammentazione degli arrangiamenti, da un lato c’è il suono più semplice della chitarra acustica di Paul a dettare nuove direttive emozionali dando buoni frutti (la già citata “Tomorrow Morning” e “Love Came Down”), dall’altro lato ci sono una serie di sonorità elettroniche più invadenti, che mettono in ginocchio la poetica del gruppo con arrangiamenti non del tutto calibrati (“War Is Love”) e un brutto pasticcio synth-soul (“Holy Love”), la cui inclusione appare inutile se non proprio priva di ragione, avendo il gruppo a disposizione canzoni come “Wish Me Well” o “O’ Lolita”, due brani che faranno parte dei singoli come
B-side.
Peace At Last è un progetto il cui valore appare sminuito dal confronto con il passato, invece è ancora una volta un raro esempio di ottimo
adult-pop. Le note di “Family Life”, ad esempio, sono un’altra manifestazione estatica di passione e romanticismo, l’ennesimo archetipo di
urban-soul, con il suono del piano e della voce più devastanti e coinvolgenti di un’orchestra sinfonica.
“God Bless You Kid” è l’episodio più atipico, la chitarra elettrica domina con tanto di
wah-wah e un
groove ritmico trascinante, un’altra testimonianza della varietà stilistica dell’album. Spetta alla conclusiva “Soon” riportare la musica su binari più consueti, con un perfetto incastro di minimalismo ritmico, tessiture
synth-strings raffinate e una
performance vocale da brivido che riporta l’orologio indietro al 1984.
Nonostante i potenti mezzi della Warner, la promozione dell’album non è delle migliori, anche la data d’uscita suscita perplessità e confusione: maggio è un mese poco adatto per un disco dalle caratteristiche autunnali e natalizie; le recensioni contrastanti della stampa inglese non giovano, e al tredicesimo posto delle classifiche inglesi non corrisponde alcun piazzamento in quelle americane, unica eccezione il Giappone, dove i Blue Nile conquistano le classifiche.
Un nuovo tour inglese viene salutato con successo e per Paul & C. sembra aprirsi una nuova frontiera; la band si dimostra più a suo agio nella dimensione live, ma i primi dissapori sono nell’aria: il rapporto con P.J. Moore è sempre più difficile, al punto che la sua mancata presenza nella copertina dell’album conferma alcune teorie che qualificano
Peace At Last come il primo lavoro solista di Buchanan.
Va sottolineato comunque che nel periodo che passa tra
Hats e
Peace At Last la mitologia dei fan si concentra sempre di più sul cantante e compositore del gruppo, anche per una serie di brani che fanno bella mostra in album di altri artisti come Julian Lennon (“Other Side Of Town”),
Robbie Robertson (”Breaking The Rules”),
Annie Lennox (“The Gift”), Michael McDonald (“I Want You”), Chris Botti (“Midnight With You”), Matraca Berg (“Let’s Face It”, che Loredana Berté trasformerà in “Comandante Che”), Jenny Muldaur (“Wandering” che Di Bella e Baroni rielaboreranno come “Sweet Love” per la voce di
Patti Pravo), Riccardo Fogli (il testo di “Fango”/”You’re All I Need”) e Zucchero (i testi di “The Promise”, “She’s My Baby” e “Come Back The Sun”).
Nello stesso tempo Robert Bell scrive alcune canzoni per Colin Woore (ex-Europeans) e firma con Nicky Holland “Running Around Again”, per l’esordio del tastierista dei
Tears For Fears, mentre P.J. Moore è uno degli autori di “Like I Do Now” di Chris Botti e compone la colonna sonora del film “The Hunger Artist”, che vede tra gli attori anche Buchanan, nel ruolo di un venditore di animali esotici; i due suonano insieme anche nell’album di
Marie Brennan “Misty Eyed Adventures”, in una versione molto originale di un brano di
Joni Mitchell, “Big Yellow Taxi”.
Il repertorio dei Blue Nile viene saccheggiato anche per delle
cover version: “Saturday Night” (
Eddi Reader), “Let’s Go Out Tonight” (
Isaac Hayes, Craig Armstrong) “The Downtown Lights” (
Rod Stewart,
Annie Lennox), "Wish Me Well" (Brian Kennedy), “From Rags To Riches“ Liberties, “Soul Boy” (Edyta Gorniak).
Il ruolo dominante di Buchanan e la distanza tra l’America e la Scozia, dove Moore e Bell risiedono ancora, non favoriscono le sorti del gruppo. E dopo cinque anni, anche il rapporto fra Paul e Rosanna Arquette entra in crisi: le differenze culturali sociali sono sempre più evidenti, per il cantante dei Blue Nile vi è poco di affascinante nel far parte dello
showbiz, che osserva con candore, senza mai sentirsene parte. L’esperienza americana nel frattempo non dà i frutti sperati, la band non è felice del mancato supporto della Warner Records che, in aperto contrasto con Paul, sperpera tutto il budget del gruppo per un unico evento (una
performance radiofonica) mentre nessuno della casa discografica presenzia ai loro concerti.
Ancora una volta il potere della loro musica cambia il corso degli eventi, il manager discografico Ed Bicknell (ex-batterista dei Mogul Trash) entra in possesso di una copia di
Peace At Last e decide d’incontrare Buchanan: sarà proprio Ed l’artefice della momentanea rinascita dei Blue Nile del 2004.
Nel periodo successivo all'uscita dell'album, Buchanan continua a scrivere per altri progetti (“Downside Up” e “Make Tomorrow” per "Ovo" di
Peter Gabriel), nel 2002 il batterista Nigel Thomas (da sempre considerato uno del gruppo) incide il suo primo album solista sotto il
moniker Quiet City (
Public Face, Private Face) offrendo ai tre musicisti la possibilità di incontrarsi su un terreno musicale più familiare, ripristinando i toni essenziali degli esordi e aggiungendo un tocco jazz che ben si addice alle geometrie armoniche dei Blue Nile.
I quasi nove minuti di “Due North” sono una vera manna per i fan del gruppo, il continuo crescendo di piano, fiati e basso è ricco di tensione e calibrati stop emotivi, che l’orchestra compatta con un pathos alla
Phil Spector, mentre Paul incornicia il brano con una
performance vocale degna dei fasti di
Hats.
L’altro brano interpretato da Buchanan, “Things We Should Say”, sottolinea sfumature jazz apparentemente inedite, confermando l’attitudine da
crooner del
vocalist, da sempre grande estimatore di Frank Sinatra e Tony Bennett.
Nel 2001 la band partecipa al
live-tribute “A Wee Night For Uaneen” insieme a
Sinead O’Connor,
Undertones,
Therapy, Devlins e Ash, eseguendo oltre a “Easter Parade” e “Tomorrow Morning”, un’austera e minimale versione di “All The Way” di Sinatra.
Ed Bicknell, nel frattempo, risolve i problemi contrattuali con la Warner e coinvolge la Sanctuary nel quarto album della band, che nel frattempo ha accumulato un numero consistente di canzoni.
High viene registrato in una chiesa con l’aiuto di Willie Knox, ed è il primo album del gruppo inciso quasi completamente a Glasgow (ad eccezione di alcune brevi sessioni nei Funny Farm Studios di
Fish), tra malumori e incomprensioni tra P.J. e Paul, con Robert a fare da mediatore.
“I Would Never” anticipa il nuovo progetto discografico, il singolo include anche le prime due rare incisioni del 45 giri “I Love This Life”, raggiungendo un lodevole 53° posto nella classifica inglese. Il tono monocromatico e cinematico viene ripristinato, le canzoni non sono però dei racconti, ma frammenti di vita ordinaria, osservati da un vetro di un bar o da un taxi. Il potere narrativo del trittico iniziale è puro
Blue Nile sound: l’intreccio tra piano e morbide
drum machine di “Days Of Our Lives”, il pathos orchestrale e quasi acustico di “I Would Never” e il pulsare ciclico di sonorità sintetiche e minimali in contrasto col cantato sensuale e romantico dell’ottima “Broken Bones” possiedono tutta l’epica che ha reso nobile la loro musica.
Le registrazioni di
High proseguono non senza problemi, le relazioni tra i tre musicisti, infatti, si fanno sempre più formali: più che amici, sono tre musicisti tenuti insieme da una sincronia intellettuale intensa. P.J. Moore è il più emotivamente coinvolto e passa molto tempo a sperimentare nuove sonorità, Paul Buchanan è travolto dalla tensione al punto da somatizzare la sua ansia in disturbi fisici (stanchezza cronica) che gli impediscono di guidare o di compiere altre attività ordinarie. Quando ascolta le registrazioni, Ed Bicknell è in vacanza alle Barbados con Buchanan, e la sua reazione dura: il suono è asettico, a tratti vetusto, inoltre la breve durata del disco è lontana dagli standard produttivi di quegli anni; per Ed, in sintesi, l’album è un disastro. Paul non gli rivolge la parola per giorni per poi ammettere che la vera difficoltà è convincere la band che si debba ritornare in studio.
E’ in questa fase che Ed chiede a Paul di fargli ascoltare alcune composizioni lasciate fuori dalle registrazioni. La prima è “Because Of Toledo”, un’insolita incursione nel territorio del cantautorato folk, costruita intorno a un delicato tocco di chitarra acustica, un lieve tappeto di synth e una tromba solitaria: pochi elementi sui quali si adagia una melodia semplice e carezzevole; l’altra è “Stay Close”, una lunga ballata sottolineata da un ossessivo e pedante ritmo elettronico che contrasta con il tono sofferto e triste del cantato, uno dei brani meno concilianti della loro produzione.
Quello che stupisce di
High è l’assoluta incorruttibilità stilistica della band, in ventidue anni la loro musica ha subito poche variazioni, l’espansione creativa e strumentale non ha mai intaccato il loro stile; la forza narrativa e il tono crepuscolare della
title track, ad esempio, pur suonando più moderni, possiedono lo stesso carisma di
Hats, mentre il pop-soul di “Soul Boy” ritorna sui passi di “Peace At Last” con una consapevolezza e un
understatement finora assenti.
Il quarto album dei Blue Nile, pur riconciliando la band con il pubblico e raccogliendo il miglior piazzamento in classifica, mette in luce un lieve senso di routine, che anticipa la fine dell’avventura: quando Ed chiama Paul per congratularsi del successo (10° posto e 150.000 copie vendute) apprende che la band si è sciolta. La notizia viene tenuta segreta per non perdere il supporto promozionale della Sanctuary, che ha appena pubblicato
High.
Paul ritorna in scena con una serie di concerti con Bell sotto la dicitura "Paul Buchanan sings the song of The Blue Nile", che presentano anche una serie di canzoni nuove (“Meanwhile”, “Start Again”, “Runaround Girl” e “Bring The House Down”) che resteranno inedite; durante il tour, P.J. Moore manifesterà pubblicamente il suo dissenso inviando una lettera ai giornalisti ricca di accuse contro l’ex-collega.
Una serie di inediti e duetti tiene viva la passione dei fan, Buchanan presta la sua voce in “Sleep“ dei Texas, “Rock Paper Scissors” di Michael Brook, “Garden Of Love” di
Aqualung, “Until I Met You” di Paula Cole, “Feelings” degli Up Dharma Down, “It’s The Things You Say” della Michael Cannon Band, inoltre incide una versione di “Silent Night” per una compilation natalizia, e una cover di “Message Of Love” dei
Pretenders per l’album di Robin Danar; in più, compone due nuove canzoni, una in collaborazione con Matt Hales (“36 Hours”) e un’altra con Bell per il teatro nazionale scozzese (“Can’t Get Over”), a questi si aggiungono una colonna sonora di Bell per il documentario “The Colour Of Sound” e una versione di “Oh Little Town", Oh Bethlehem” realizzata da P.J. Moore e Chris Thompson.
L’evoluzione dell’industria discografica e l’avvento di internet hanno rivoluzionato i metodi di fruizione della musica, elementi dissonanti per i Blue Nile, il cui status di
cult-band è decisamente lontano dalle regole del business. La loro visibilità nel panorama musicale è simile a quella di un vulcano, sempre quiescente e immobile in attesa di un evento che smuova fuoco e fiamme.
Anche se con
High la band conquista le classifiche, appare sempre più evidente che la magia è scomparsa, sostituita da una professionalità asettica e priva di autentico pathos.
E’ emblematico il ricordo che Moore ha del suo ultimo incontro con P.J.: Paul arrivò con la sua jeep Mercedes, caricò tutta la strumentazione che ancora giaceva nella casa-studio di Buchanan e quando ebbero finito, voltò il suo sguardo chiedendogli: "È tutto qui? Non c'è altro?". La sua risposta fu priva d'emozioni: "Non c'è altro da dire, è tutto qui". L'avventura dei Blue Nile era ormai finita.
Otto anni dopo vede la luce il primo album solista di Paul Buchanan,
Mid Air.
Un album composto di ben tredici brani e uno strumentale, appena tratteggiati dal pianoforte e dalla voce evocativa, trasformata in un respiro o più spesso in bisbiglio. La musica usa uno spettro di luce sempre più ampio per estrarre infinite sfumature da una sola unica nota, quasi a rimarcare la costante ricerca sonora dell’artista, che da sempre insegue il suono del silenzio situato tra le pause armoniche, per creare un nuovo archetipo di
musique concréte.
È una musica che ha il sapore del primo mattino, l'attimo indefinibile che raccoglie il boato dei pensieri e delle emozioni di una dura giornata. Buchanan aveva promesso un album pieno d'ottimismo, ma i fan dovranno attendere, perché
Mid Air mette in fila le disillusioni e il peso greve dell'esperienza per poi far germogliare una speranza.
Ancor più eterea e impalpabile, la musica racconta quattordici variazioni emotive su pochi cenni armonici, senza mai conoscere le tentazioni della noia e dell'autocompiacimento.
La fragilità delle schegge sonore si raccoglie in corpi legnosi, creando nuove energiche suggestioni.
È un nuovo inizio,
Mid Air, ricco dello stesso fascino incorrotto del primo album dei Blue Nile ma con un tono più umile e poetico; Buchanan riesplora i flussi emotivi di brani come "Eastern Parade" o "Family Life", ma sono brevi
photo-frame che non superano i tre minuti, una celebrazione eucaristica che saluta una rinascita spirituale che spesso suona come un epitaffio.
Anche le suggestioni letterarie sono frammentate e prive di morale finale, quasi a segnare nuovi confini a un'ispirazione che non cerca nuove sonorità, ma ne reinventa i contorni.
Non c'è alcuna rivoluzione sonora o timbrica, sono già note
torch song capaci di dare vita a infinite sfumature cromatiche di una musica intensamente romantica e passionale, in una frustante ricerca dell'essenzialità, che spinge la voce verso un centro emotivo quasi impalpabile.
La tromba di "I Remember You" e gli archi a scaglie e le intrusioni di synth e piano di "Buy A Motor Car" sono le stesse dei primi due album, tutto sembra appena accennato ma sorprendentemente più definito e armonico. Ogni nota, ogni parola riecheggia e cresce fino a diventare poesia. Piano e archi conducono la dolcezza di "Two Children", sfidando la voglia di un
refrain pop nell'ipnotica "Summer's On Its Way", mentre le semplici armonie della
title track realizzano l'archetipo perfetto per introdurre l'ascoltatore nel mondo di Buchanan.
La pioggia, la solitudine di un'alba grigia si trasformano in ispirazione per una poesia sempre affine ma mai immutabile, ed ecco "Cars In The Garden" e "Newsroom" definire i tratti delle canzoni pronte a conquistare chi conosce i segreti della musica dello scozzese.
Nella variazione infinita della sua sinfonia da primo mattino, Buchanan raggiunge vertici lirici nuovi nella struggente "My True Country" e nella conclusiva "After Dark", nella quale sembra che la stanchezza e la rassegnazione s'impossessino della sua voce, come se dopo aver invocato per ore l'ascolto della persona amata e perduta, sia scomparsa anche quella voglia di gridare "I love you". Gli elementi neoclassici e le rarefazioni strumentali vibrano su toni e semitoni che tracciano un ponte con Debussy e Satie, dando linfa vitale per la musica a venire.
Ancora una volta, Buchanan lastrica la strada per tutti coloro che racconteranno i sentimenti e le ansie della gente comune; cosciente che anche stavolta non sarà lui a raccogliere gli onori e la gloria resterà lì, a mezz'aria, sperando comunque che questi preziosi frutti non vadano dispersi.
Sul futuro dei tre ex-componenti dei Blue Nile cala di nuovo il silenzio, appena turbato da una serie di ristampe in formato
deluxe, che oltre a raccogliere
B-side e inediti (
Peace At Last,include nella ristampa tre brani inediti: "Turn Yourself Around", "There Was A Girl", "A Certain Kind Of Angel"), si segnalano per l’eccellente qualità del lavoro di restauro in cd (i primi due album furono pubblicati quando il vinile ancora faceva da padrone). Nel 2015 Buchanan incide una versione di "The First Time Ever I Saw Your Face" per un album tributo a Ewan McColl, intitolato "The Joy Of Living", mentre alcune voci annuciano un nuovo album solista con sonorità più vicine ai vecchi Blue Nile, ma tutto viene di nuovo avvolto dal mistero.
Il destino del gruppo scozzese resta legato al suo profilo di
cult-band, un ruolo artistico vissuto sempre in maniera atipica e poco convenzionale. Forse aveva ragione Paul Buchanan quando sosteneva che la loro attitudine e il loro rapporto con l’industria discografica fosse più affine al punk: una punk-band che, invece dello sberleffo e della provocazione, aveva scelto il linguaggio della musica, tre perfezionisti della rarefazione emotiva ai quali la storia non ha restituito la giusta fama.