Strappa più di un sorriso il pensiero che Roddy Frame abbia compiuto da poco 50 anni. Sembra ieri che il giovane Roddy e i suoi Aztec Camera sconvolgevano la musica inglese con chitarre acustiche che si opponevano all’impero dell’elettronica new wave; Red Ronnie stroncò senza incertezze l’esordio dello scozzese, mentre Elvis Costello si inchinava alla genialità di “High Land Hard Rain”.
Il tempo è passato e Frame è un musicista scomodo per chi ama analizzare la musica per i suoi risvolti sociali e tematici: gli Aztec Camera sono stati un piacevole incidente della musica pop che non ha alterato il corso della storia, una meteora capeggiata da un buon scrittore di melodie che nel tempo sembra aver perso lo smalto necessario per stupire e appassionare.
È possibile però che abbiamo commesso un errore nel valutare la statura artistica dello scozzese: la chiave di lettura della carriera di Roddy Frame risiede in quella abilità di tracciare qualche sottile linea nel microcosmo di quella canzone d’autore più intima e romantica, un universo che il pubblico rock incrocia raramente per poi dimenticare.
E’ vero che dopo i primi due album degli Aztec Camera, l’incisività di Roddy si è persa tra le tentazioni a stelle e strisce di “Love” e due album non del tutto a fuoco come “Stray” e “Frestonia”, ma la carriera solista è stata ingiustamente sottovalutata, nonostante due dischi quasi perfetti come “The North Star” e “Surf”, dove il musicista ha infine trovato il giusto equilibrio tra il suo romanticismo e un pregevole sound elettroacustico.
Nessuna novità si propone quindi nel suono di “Seven Dials”, ma solo la medesima abilità nel mettere insieme la cristallina scioltezza del jingle-jangle di byrdsiana memoria con la compassata malinconia di Jobim e la schiettezza dei Beatles, senza tralasciare nessun elemento della canzone d’autore più raffinata. I giri armonici suonano familiari ma sempre gradevoli e rinfrescanti, lontani dalla chiassosa artificiosità del mainstream e dalla forzata malinconia di molti giovani songwriter.
“Seven Dials” è il suo album più personale e riuscito, dove l’artista non cerca invano di riagguantare il fascino della gioventù ma al contrario esibisce tutto il piacere sottile della maturità. Disilluso dalla politica e lontano dagli inganni di una rivalsa nazionalista, Roddy ama ricordare la sua Scozia al suono dei T. Rex, guardando vecchi film di Starsky & Hutch, e sorride pensando che aver smesso di bere e consumare droghe gli ha restituito l’arte di scrivere canzoni.
La presenza di Edwyn Collins (l’album esce sulla sua etichetta personale) rinnova la vecchia amicizia tra i due ex-ragazzi prodigio scozzesi: non stupisce alfine che la produzione del disco sia così perfetta e calibrata, anzi quasi maniacale nella cura dei dettagli strumentali e vocali. Si racconta che Roddy abbia, per esempio, registrato più volte “On The Waves” nel tentativo di eliminare un impercettibile fuori tempo della voce.
Le dieci canzoni del progetto rendono ancora più evidente l'estraneità del musicista con quel movimento pop inglese in cui spesso Frame è racchiuso: qui aleggia più lo spirito dei Fleetwood Mac o degli Steely Dan e forse dei Beatles, anche se Roddy non disdegna la lezione di due grandi maestri inglesi come Morrissey e David Bowie. Sono dieci piccoli germogli, fragili brattee pronte a mostrare le loro sfumature di colore a ogni riverbero del sole, ancor più quando si mescoleranno con quei piccoli capolavori del passato in un prossimo ed emozionante tour che Roddy sta preparando per il mese di dicembre.
Canzoni come “Into The Sun” allontanano ogni dubbio sull’attuale stato di salute dell'autore: la stessa malinconica scioltezza, lo stesso uptempo ricco di giri armonici che abbiamo adorato negli Aztec Camera, e la ballata acustica intorpidita di jazz e samba “Rear View Mirror” ha la stessa verve delle migliori intuizioni di “Love” ma senza quell’enfasi che riduceva il fascino del suo album americano. Ad essere sinceri, già dalle prime note di “White Pony” si può avvertire quella magia che trasforma brani ordinari in un evento rimarchevole e ricco di emozioni, una delle migliori prestazioni vocali del cantante scozzese sottolineata con raffinate e pregevoli sonorità elettroacustiche ricche di pathos.
E’ un album avvincente che non cerca di distrarre l’ascoltatore con inutili artefici stilistici: il coro alla Eagles alternato alla chitarra spagnoleggiante in “Postcard”, la leggerezza country-pop della ingenua “Forty Days Of Rain” sono il versante più solare (insieme alla già citata “On The Waves”) in contrasto, mai stridente, con le malinconiche e a volte drammatiche ballate “English Garden” e “From A Train”.
Le deliziosi commistioni di lirismo e progressione armonica sviluppano il background per le due ballate più accorate e sentimentali dell’album, ovvero “In Orbit” e la splendida “The Other Side”, un malinconico brano ricco di piacevoli suggestioni letterarie che richiama alla mente il David Bowie di “Where Are We Now?” e rammenta ai più distratti il talento dell’ex-ragazzo scozzese alle prese con una dignitosa e vigorosa maturità.
12/06/2014