Delle quattro pubblicazioni sui Fab Four uscite in questi ultimi anni in versione super-deluxe per festeggiarne il cinquantennale, quella dedicata a "Let It Be" va ad analizzare molto probabilmente l'album che è forse la testimonianza da sempre classificata dietro il tridente "Sgt. Pepper's Lonely Hearts Club Band", "White Album" e "Abbey Road", elencati in rigoroso ordine cronologico.
A differenza degli altri, però, "Let It Be" porta con sé una monumentale quantità di materiale audio/video rimasta per troppi decenni quasi interamente nei cassetti, pur essendone perfettamente nota l'esistenza.
"Let It Be" è anche il prodotto scaturito dal periodo più controverso, duro, spiazzante che i Beatles vissero nella loro carriera, con lo scioglimento dietro l'angolo e una deriva che ormai stava diventando sempre più una certezza anche nella testa di ogni componente.
I presupposti, che portarono nel gennaio del 1969 all'idea di pianificare qualcosa che avesse come primo obiettivo quello di riprendere in mano le redini della loro storia, erano i migliori: ripartire dai concetti degli esordi (da qui il titolo inziale "Get Back") fatti di collaborazione e sana competizione che consentisse, dopo tre anni di isolamento in studio e di composizioni frutto del lavoro dei singoli, di tornare a esibirsi finalmente dal vivo.
Il programma, come è noto, sembrò naufragare irrimediabilmente a materiale ultimato. Decine di ore di registrazioni svoltesi presso gli studi di Twickenham, volutamente riprese dalle telecamere, portarono a un risultato finale ritenuto di scarsa qualità, accantonato temporaneamente in luogo dell'ancora più ambizioso progetto "Abbey Road", editato solo una manciata di mesi dopo (settembre).
"Let It Be" vide la luce nel maggio del 1970 solo a scioglimento avvenuto, dopo ulteriori polemiche causate anche dagli invasivi arrangiamenti apportati da Phil Spector, voluto da Lennon per rivisitare il missaggio originario realizzato dall'ingegnere della Emi, Glyn Johns.
Questa versione super-deluxe va quindi a documentare quei momenti fatti di discussioni, litigi, abbandoni, ponendo però il vero focus - forse per la prima volta - sui considerevoli attimi di grande coesione e rinascita.
L'edizione - come al solito pianificata in diverse varianti: digitale, cd, blu-ray e vinile, queste ultime corredate da un meraviglioso libro di 104 pagine zeppo di foto e notizie - va obbligatoriamente analizzata nella sua completezza per l'intrinseca importanza storica che possiede.
Il viaggio parte dalla rimasterizzazione elaborata da Giles Martin (figlio del mitico George) e dall'ingegnere del suono Sam Okell, ottenuta dai nastri originali, che mediante il processo Surround Dolby Atmos ha donato nuova vita soprattutto a brani quali "Two Of Us", dove sono esaltate le splendide armonie vocali e gli accordi di chitarra acustica, "Across The Universe", despectorizzata a intima ballata volta a esaltare uno dei testi di Lennon più riusciti di sempre o come accade per "I've Got The Feeling" e "I Me Mine", per le quali il suono elettrico delle chitarre viene traslato in sontuoso primo piano. "Let It Be" (il brano) suona, se possibile, ancor più simile a un inno e le trascinanti sequenze del piano elettrico di Billy Preston presenti in "Get Back" colorano di nuove nuance le prodigiose otto battute blues di "Get Back".
La sensazione generale è che queste nuove versioni, che si collocano quindi tra la comunque intoccabile versione Spector e le discutibili versioni "Naked" che McCartney predispose nel 2003, abbiano dato nuova linfa alla sezione ritmica. Un parziale risarcimento alle fin troppo esagerate critiche mosse negli anni al rapporto basso-batteria disegnato dallo stesso McCartney e da Ringo Starr, che vedevano proprio nel lavoro articolato dal batterista il vero anello debole.
Tra le tante chicche presenti si ritaglia un posto d'onore l'intera sequenza arrangiata da Glyn Johns, la prima, l'originale, mai pubblicata finora e da sempre molto attesa dai completisti, proprio quella che lo stesso ingegnere del suono Emi definì letteralmente spazzatura tra le pagine della sua autobiografia "Sound Man" (2014).
L'esito finale è, in effetti, in chiaroscuro. Johns consegnò ai Fab Four un prodotto grezzo e autentico, come da istruzioni, seguendo pedissequamente la richiesta formulata dagli stessi che volevano immortalare tra i solchi la sensazione di presa diretta, tipica di quelle mutevoli sessioni. I brani suonano un po' troppo noiosi e raffazzonati, tanto da arrivare, in alcuni casi, a far apprezzare ancor di più le note esagerazioni applicate dal "Wall Of Sound" di Spector.
Le take prescelte sono sostanzialmente diverse da quelle poi finite sul disco ufficiale e forse, alla luce del materiale emerso alla spicciolata dalle bobine conservate gelosamente ad Abbey Road, non sempre le migliori. La sola "The Long And Winding Road", da sempre capostipite delle diatribe più accese derivanti dai numerosi arrangiamenti cui è stata sottoposta, appare adeguata alle reali ed enormi potenzialità di cui dispone, in questa veste meno pomposa e lasciata scivolare tra la lirica di McCartney e le elegiache note di pianoforte.
Il punto a favore di Johns, incontrastabile, è (o meglio era stato) quello di aver previsto nella tracklist la presenza di "Don't Let Me Down", un crimine contro la storia commesso da Phil Spector nell'escluderla dalla lista ufficiale per conservare, invece, brani di valenza oggettivamente inferiore quali "Dig It" o "Maggie Mae". E non è poco.
Non mancano ovviamente numerosissimi inediti - tra take differenti e outtake se ne contano ben ventisette - corredati da intermezzi speech che in alcuni casi sono veri e propri segni rivelatori del clima misto tra tensione ed empatia che si viveva in studio.
Una versione dell'eccellente "All Things Must Pass", che fornì poi il titolo al seminale esordio solista di George Harrison, è accompagnata da numerose embrionali versioni di ciò che verrà poi ampliato e perfezionato nelle imminenti sessioni per "Abbey Road" come "Something", "Oh! Darling" e "Octopus's Garden", insieme a porzioni della cosiddetta "Marathon" quali "She Came in Through The Bathroom Window" e "Polythene Pam". Interessante la presenza di "Gimme Some Truth" che Lennon inserirà solo nel 1971 nel suo "Imagine", dove si palesa la collaborazione tra lo stesso Lennon e un McCartney che lo consiglia sullo sviluppo di alcune fasi del pezzo, e come non includere l'inciso che lo stesso Macca dedica a "Please Please Me" nella Take 10 di "Let It Be", un divertissement al pianoforte dal sapore antico.
L'inserimento della splendida versione di "Don't Let Me Down", tratta dal famigerato "Rooftop Concert", lascia paradossalmente l'amaro in bocca, perché unica testimonianza estratta da quello straordinario documento dal vivo. In un compendio che tende a voler essere esaustivo del periodo, insieme alle single version di "Let It Be" e "Don't Let Me Down", è ingiustificabile il mancato inserimento di "You Know My Name", il divertente e sottovalutato lato B del 45 giri di "Let It Be".
Anticipato di qualche giorno dal libro "The Beatles: Get Back", un prezioso volume di 240 pagine che mette nero su bianco, attraverso le parole dei protagonisti, storia, immagini, aneddoti tratti da questo particolare ciclo artistico e soprattutto in attesa del documentario che il tre volte Premio Oscar Peter Jackson ha creato per Disney+, basato su più di sessanta ore di riprese video, che sarà messo in onda alla fine del mese di novembre in tre distinte tranche, "Let It Be - Super Deluxe Edition" regala importanti informazioni, fondamentali per approfondire con più dettaglio tutte le particolari situazioni che hanno contraddistinto la fase finale della carriera del gruppo, oltre a regalare ai fan nuove gemme marchiate da quel logo sempiterno, garanzia di assoluta qualità.
19/10/2021