Forse per sfuggire al perimetro imprigionante di un'immagine mediatico-mondana sin troppo definita e prevedibile, forse per rivendicare una libertà creativa che pochi sarebbero sino in fondo disposti a riconoscergli, fatto sta che gli Arctic Monkeys hanno deciso di depistare l'ombra lunga di se stessi, andandosi a nascondere nel silenzio mistico e monacale del deserto del Mojave e trovando rifugio nel leggendario studio Rancho De La Luna, per sottoporsi alle cure rigenerative del maestro di vita e pensiero Josh Homme (che condivide i crediti di produzione dell'album assieme al vecchio sodale delle Scimmie James Ford, già ingaggiato per la fatica precedente).
Che un tentativo di autosabotaggio fosse assolutamente necessario alla band per continuare a sopravvivere, al di fuori dell'angusta gabbia dorata di un successo planetario sempre più soffocante e invasivo, era cosa chiarissima già da qualche tempo, e il progetto parallelo dei Last Shadow Puppets, all'insegna di un nuovo rigore classicista lungo l'asse Scott Walker/ Zombies/ Love, pareva già indicare una possibile via di fuga dalla palude degli stereotipi più inveterati.
Ma il gruppo ha deciso di acuire e in qualche modo accelerare questo naturale processo evolutivo e, con l'aiuto di una vecchia volpe smaliziata come Homme, ha finito con il produrre un album costruito su una quasi completa (e programmatica, vien di pensare) assenza di canzoni, una sorta di oppiaceo e balbettante suicidio del groove, una palude onirica di frammenti sonori fluttuanti e visioni narcolettiche, cantabili a stento, e assolutamente non ballabili.
Ascoltando pezzi come "Dangerous Animals" o "Dance Little Liar", con il loro passo intontito e biascicante in bilico tra vaghi furori sabbathiani e i fantasmi disincarnati di una scheletrica band post-grunge in crisi di astinenza, si avverte a tratti l'abbandono nichilistico e l'abulica indolenza di un gruppo che fissa per ore intere senza proferire parola alcuna una parete perfettamente vuota prima di imbracciare le chitarre e mettersi a comporre.
In canzoni come "Secret Door", "Fire And The Thud", "Cornerstone" o "The Jeweller's Hands" (queste ultime due possono essere considerate le migliori del lotto) il suono (o l'idea che esso si porta dentro), densamente atmosferico e rarefatto, in certi passaggi quasi ritualistico, s'impone sulla struttura stessa delle canzoni vere e proprie, slegandole in un acidissimo alone psichedelico di immagini fugaci e liquescenti.
Paradossalmente il gruppo finisce con il non convincere del tutto proprio laddove torna a riproporre quelle sbiadite formule compositive che in un passato ancora fresco ne avevano decretato l'incredibile successo, vale a dire i soliti riffettoni frastornanti infarciti di ritmiche dal passo marziale e turbinante, come accade in "Potion Approaching", in cui riemerge il rude bullismo nordico-provinciale di inizio carriera, o nella scialba "Pretty Visitors".
Sebbene l'operazione sia riuscita solo parzialmente, forse per evitare uno strappo troppo brusco (che però sarebbe stato interessante testare sino in fondo), rimane ad ogni modo apprezzabile il proposito della band di aprirsi un varco attraverso sonorità per certi aspetti antitetiche rispetto a quanto sinora prodotto. "Humbug" appare così come un disco "di transizione", momento di raccordo ipotetico tra un passato che forse non appartiene più alla band sheffieldiana e un futuro ancora nebuloso al quale Alex Turner e soci dovranno decidere quale volto attribuire.
03/09/2009