Conviene iniziare il discorso riconoscendo, non senza una certa sorpresa, che “Grace/ Wastelands” non è un disco brutto. Il che non vuol dire automaticamente che sia un disco bello, semplicemente le canzoni vere “ci sono” ed emergono aspetti persino insospettabili circa i gusti e le frequentazioni musicali di Doherty. L’album si presenta nel complesso come una raccolta di bozzetti folk non eccessivamente rifiniti, ancora freschi di spartito, appuntati sul bavero della camicia in quella grafia un po’ svogliata e zigzagante che quasi suo malgrado è divenuta nel tempo una specie di cifra stilistica del nostro. Il tutto ha un tocco un po’ naif ma anche molto chiccoso a dire il vero, vagamente scapigliato e bohemien, come è d’altronde nelle corde del personaggio.
Le canzoni volano via come una vecchia pagina di Le Figaro soffiata dal vento e qua e là salta fuori un lirismo screpolato e fischiettante che sa illuminare un fitto groviglio di sentimenti piacevolmente contraddittori e reveries dal passo svagato. In bilico tra il primo Scott Walker, Jacques Brel e Lloyd Cole, con un’attitudine da crooner confidenziale degna di un Richard Hawley sposato al narcisismo un po’ strafottente di Jarvis Cocker, Peter Doherty dimostra, con filastrocche come “Arcady”, “Salome”, “I Am The Rain” o “1939 Returning”, di avere una mano piuttosto felice nello schizzare una sua piccola epica del quotidiano. E se il singolo “Last Of The English Roses” ha un arrangiamento un po’ troppo simile a “Lullaby” dei Cure (ma il ritornello già si presta a karaoke con il cuore in mano), “A Little Daeth Around The Eyes” si avviluppa in un erotico abbraccio di archi piazzolliani, mentre “Sweet By And By” disegna un foxtrot piroettante su pianoforti da gangster movie e ottoni su cui guizza il riflesso sfocato di Duke Ellington e Benny Goodman. Il resto forse non è altrettanto godibile, ma la fumosa “Palace Bone” e soprattutto “Broken Love Story” sanno comunque ammantarsi in un nube di sbiadita poesia sempre cantabile.
“Grace/ Wastelands” non è un lavoro corrivo né sciatto e già questa è, a ben vedere, una modesta ma non trascurabile conquista, considerati i presupposti non certo incoraggianti. Da qui all’affermare che Pete Doherty sia una grande autore ovviamente ce ne passa, eppure quest’album in qualche modo ritaglia una timida finestrella su un talento che potrebbe continuare a crescere in maniera più che apprezzabile nel prossimo futuro, se solo il suo sciagurato titolare glielo consentirà. Staremo a vedere.
(24/03/2009)