Rock. Rock e droga. Rock, droga e modelle. Con questi tre ingredienti (la dose varia a insindacabile giudizio personale), i Babyshambles hanno conquistato la copertina stagionale di tutte le riviste (da Nme a Novella2000, anche qui il valore della rivista in questione varia a insindacabile giudizio personale). Una sovraesposizione mediatica, in quello straccio di terra tra gossip e musica, che ha ricordato ai più quello che è stato l'ultimo caso a memoria di tanto rumore per "nulla": i noiosissimi siparietti Cobain-Courtney. Sulla medesima scia Pete Doherty è diventato, per i maligni scientemente (quando non a tavolino), un fenomeno di massa. A chiudere l'argomento, c'è da aggiungere che la rappresentazione teatrale della vita da rockstar ha avuto e avrà tanti interpreti: di questi, pochi riescono a diventare "merce" tanto per gli appassionati di musica quanto per i distratti del gossip. Un indice di popolarità verticale e orizzontale. Pete Doherty ha il merito di esserci riuscito, che piaccia o meno. E comparire nelle brevi dei vari Metro e Leggo ne è la più chiara testimonianza.
Fin qui la vita. La musica: un passato florido con i Libertines ha regalato grandi soddisfazioni al giovane Doherty. Il nostro, con la sostanziosa collaborazione dell'amico/nemico Carl Barat, riuscì nel 2002 a piazzare il colpaccio di una vita: il loro album d'esordio "Up The Bracket" è stato uno dei dischi più venduti sul mercato britannico ed europeo (all'epoca erano considerati la risposta inglese agli Strokes, usciti l'anno precedente con il loro capolavoro garage-pop "Is This It?") e nondimeno apprezzato dalla critica. Poi la separazione violenta tra i due, un secondo album omonimo per lucrare le ultime sterline rimaste da un sodalizio durato lo spazio di due stagioni, e l'inizio della tempesta mediatica che dura ancora oggi.
I Babyshambles nascono quasi per caso e quasi per necessità: nascono come gruppo cazzeggio di Pete Doherty, che vede i suoi ex amici Libertines continuare a esibirsi in giro per l'Europa e vede se stesso, con un volto sempre più corrucciato, sui giornali popular inglesi. Quanto sia voglia di riscatto, bisogno di soldi o semplicemente passione per la musica è difficile a dirsi; forse le tre cose messe insieme. Chiama a sé l'amico-mecenate Mick Jones, sponsor e produttore anche dei Libertines che furono, e inizia a ripensare la propria carriera. Pete Doherty non va molto lontano. Anzi, ascoltando "Down In Albion" sono stati fatti parecchi passi indietro. Il gambero Doherty aveva riempito le orecchie dei suoi fan più fedeli con demo, brani non finiti, prove da studio; tutto il 2004 era stato un rincorrersi alla versione più definitiva, un continuo annuncio dell'imminente uscita del nuovo album, immancabilmente smentita.
Quando poi l'album è uscito per davvero, e il cd è finito nel nostro lettore, i vecchi demo che avevamo ascoltato l'anno passato si sono ripresentati poco riveduti e poco corretti nella loro versione da studio. La sensazione che si ha ascoltando "Down In Albion" è, infatti, quella di un album poco curato, uscito di fretta e senza alcun lavoro di fino. Un pop-rock leggero e sgraziato, borghese, ma sporco. La solita voce, i soliti giri di chitarra, i soliti tamburi e il solito basso. Mancano del tutto le idee e manca, soprattutto, la freschezza che conferiva fascino a "Up The Bracket". In realtà, la partenza del disco non è malvagia: la prolissa "La Belle Et La Bete" è figlia illegittima del sound Libertines, col suo punk-rock immerso in un'atmosfera buia e paranoica, coi suoi schizofrenici rallentamenti seguiti da altrettanto schizofreniche accelerazioni, e con il featuring di Miss Kate Moss (ci spiace, ma non siamo riusciti a non nominarla).
Segue il singolo "Fuck Forever", e fa di nuovo centro. Già, perché, pur prevenuti quanto vi pare, ancora riusciamo a rintracciare il talento, quando c'è. E "Fuck Forever" è un singolo da classifica perfetto, con un refrain immediato e da colpo sicuro, con una melodia per nulla ripetitiva nemmeno al centesimo ascolto. Per noi, però, il disco finisce qua.
Il resto è noia, noia e ancora noia. Si ripetono a ciclo continuo le stesse idee, la stessa musica che abbiamo ascoltato centinaia di volte (con qualche variante gradita come il fulmine a ciel sereno rappresentato dalla gradevolissima "Sticks & Stones") in centinaia di altri dischi inglesi che sono stati, tutti e cento, dischi della settimana del New Musical Express. Si potrebbe riflettere, a margine, su quanto il garage-rock delle origini si sia lavato le mani e si sia trasformato in un più pulito pop-rock. Ma è fare filosofia su un disco che non vale un rigo in più. Per gli amanti delle stelline, ci spiace, ma qui non si va oltre le 5.
06/04/2013