Fare la rockstar è un fottuto dono di Dio
(Ozzy Osbourne)
I Black Sabbath sono stati una delle band più influenti di tutti i tempi, in un modo tanto chiaro quanto paradossalmente inconsapevole, da rappresentare un vero caso all'interno della storia del rock. A loro si devono almeno due caratteristiche divenute fondamentali per l’evoluzione dell’idea stessa di musica giovanile. Innanzitutto, il merito principale - che li fa entrare di diritto nel novero delle band “superiori” - è il loro essere stati pionieri di un nuovo tipo di suono, potente e lento, massiccio e monolitico che, pur abbozzato da alcune band heavy-psych o garage (i brani più duri dei Blue Cheer, degli MC5 o degli Stooges), ha subito col chitarrista Tony Iommi una evoluzione innegabile.
Si discute ancora se i Black Sabbath siano a tutti gli effetti la prima vera e propria heavy-metal band; oppure se invece siano stati la formazione hard-rock più influente per la sua genesi, in un periodo in cui emergevano altri nomi pur leggendari come Deep Purple, Thin Lizzy, Blue Oyster Cult e altri ancora, ciascuno con il proprio approccio. Sono disquisizioni che possiamo operare solo col senno di poi e relativisticamente, perché durante gli anni 70 i termini sopracitati erano spesso usati in maniera intercambiabile - né ai musicisti e agli ascoltatori che vivevano quei momenti interessava molto fare particolari distinzioni. Ma è innegabile in ogni caso che la band divenne il principale punto di riferimento di gran parte del mondo heavy-metal, o per lo meno i Black Sabbath hanno ispirato e contribuito all'evoluzione definitiva da "hard" a "heavy", laddove altre formazioni come i Judas Priest poco più tardi si sono occupate dell'aspetto "metal" e dell'affrancamento definitivo dalle radici blues (che nei primi dischi dei Sabbath sono ancora tangibili).
In effetti, il particolare sound ossessivo e cavernoso dei Black Sabbath si ritrova relativamente poco in gruppi successivi noti ai più come i celeberrimi Iron Maiden, dinamici e virtuosi, fornendo un maggiore spunto nella chitarra ritmica e nel rendere tutto più pesante, ma non nella chitarra solista, nei tecnicismi, negli intrecci tra due chitarristi e nelle atmosfere; invece, lo stesso stile si è rivelato fondamentale per la nascita di varie altre categorie salite alla ribalta in anni successivi.
In particolare il gruppo ha dettato le coordinate su cui vennero forgiati il doom-metal (con gruppi come Candlemass, Saint Vitus, Pentagram o Cathedral che durante gli anni 80 e 90 avrebbero attinto parecchio al tipico sound lento, ostinato e ipnotico dei Black Sabbath, estremizzandone i riff ed espandendone le atmosfere per creare un nuovo genere con identità propria) e persino lo stoner-rock e lo stoner-metal (Kyuss, Monster Magnet, Fu Manchu, Masters of Reality devono tutti qualcosa anche a Ozzy e soci), per non parlare di formazioni in bilico tra doom e stoner (Electric Wizard, Sleep).
Sono solo gli esempi più diretti, perché si può ritrovare l'influenza sabbathiana anche in molti altri gruppi e ambiti, riarrangiata, reinterpretata, evolutasi in mille modi differenti ciascuno con le proprie sfaccettature. E a testimonianza della reverenza per il gruppo, vedremo anche come molte canzoni e album dei Black Sabbath con i loro titoli abbiano ispirato i nomi di parecchie band in questi settori.
Ma non sono solo gli epigoni più recenti a rendere tributo e omaggio all'importanza di Black Sabbath. Se in ambito punk i Ramones e i Sex Pistols hanno avuto come padrini band come gli Stooges, i principali protagonisti e pionieri del metal hanno avuto come riferimento i Black Sabbath; tanto che persino Rob Halford, il cantante degli stessi storici Judas Priest prima menzionati, dei veri e propri "padri" dell'heavy-metal senza dubbio, interrogato su tale status ha ribadito che per lui i veri "padri" venuti prima di tutti sono da considerarsi i Black Sabbath.
Curiosamente, però, il gruppo odiava l'etichetta. Il chitarrista Iommi nelle interviste riferisce che quando qualcuno li definiva "heavy-metal", prontamente lo correggevano dicendo di essere "heavy-rock", ma che alla fine si rassegnarono.
Oltre a tutto questo, gli inglesi hanno anche definito un’estetica e un atteggiamento assolutamente opposti a quanto la generazione (a loro coeva) della cosiddetta Summer Of Love praticava da anni (anche in questo caso un’evoluzione della band garage già citate). E ciò non sarà di importanza secondaria nel dare caratterizzazione al loro suono e alla loro attitudine. Ma vediamo di ripercorrere le tappe della carriera del gruppo per meglio conoscerlo.
La filosofia e le origini dei Black Sabbath
La visione del mondo dei Black Sabbath è cupa e pessimista, nulla di salvifico può esistere in un mondo che è sostanzialmente da detestare; l’unico rimedio per cercare la propria salvezza è la fuga verso il successo e il divertimento figli del rock’n’roll. La scelta del mondo horror di sabba e streghe, un primo approccio esoterico e/o satanico, è dovuta principalmente alla voglia di diversificarsi dalle band coeve e di scandalizzare la società moralista, ma è perfetta allo scopo di emergere dalla massa di band e farsi notare. I Black Sabbath portano nel rock in modo prepotente il fascino della morte (in maniera molto meno intellettuale di quanto avevano fatto i Velvet Underground), esasperano un pensiero nichilista e individualista che diverrà uno dei pilastri del movimento underground metal che vedrà la luce vari anni dopo. La musica dei Black Sabbath è la risposta di quattro operai inglesi ai cugini hippie americani, rinnegati e oltraggiati dal loro nichilismo. La loro è per certi versi una rivoluzione - seppur solo parzialmente consapevole - un vero riscatto proletario contro una musica eccessivamente intellettuale o complessa definibile come borghese.
L’obiettivo primario di Ozzy e compagni era più che altro quello di “salvare” la propria vita dal dover lavorare in fabbrica per il resto dei propri anni, di emanciparsi da tutti i loro inferni quotidiani. Per loro il rock era soprattutto una forma di riscatto e di vendetta verso una società che li aveva regalati in fondo, era un modo per “fregare” tutti e vivere all’insegna del successo e dell’eccesso. Proveniente da una famiglia povera, affetto da una forma severa di dislessia che comprometteva drasticamente il suo rendimento scolastico, vittima di frequenti episodi di bullismo e “ospite” nel carcere minorile della sua città, Ozzy ha una vita piena di episodi che rendono bene le sue difficoltà giovanili per inserirsi nella società britannica.
Proprio Tony Iommi, suo compagno di scuola, è uno dei più temuti bulli che lo perseguitano durante l’adolescenza. Appassionato di blues e rock’n’roll (la sua band preferita sono gli Shadows), Iommi rischia seriamente di veder troncata la sua carriera ancor prima di iniziare nel 1968, quando durante il lavoro in fabbrica subisce l’amputazione delle falangi del medio e dell’anulare destro. Iommi è mancino e questo incidente rende impossibile suonare la chitarra con la dovuta precisione. Prova quindi a suonare da destrimane senza riuscirci. A un certo punto, in pieno periodo di depressione e ormai convinto di dover abbandonare la sua carriera di chitarrista, viene a sapere che il chitarrista jazz Django Reinhardt aveva subito una menomazione alle dita ben più grave della sua ed era riuscito a continuare a suonare. Iommi comprende che forse con l’ausilio di protesi potrebbe farcela. Cerca allora un metodo fai da te e pensa a rivestire le dita amputate con plastica di tappi di bottiglia fusa con accendino. Questo, se da una parte permette di pigiare le corde con forza, da un’altra riduce la velocità; pensa quindi che sia necessario allentare leggermente le corde e renderle meno tese, abbassa quindi di mezzo tono le sei corde. Con questo espediente riesce a suonare la chitarra, ma soprattutto, in modo del tutto inconsapevole, crea quel suono anomalo e caratteristico che oggi riconosciamo immediatamente come sabbathiano. Dopo altre esperienze in gruppi minori, i Black Sabbath si formano quando Iommi e il batterista Bill Ward leggono in un negozio di vinile un annuncio:
Ozzy Zig cerca gruppo. Possiede amplificazione propria.
Iommi, che conosceva bene Ozzy, non è affatto convinto delle capacità del suo ex-compagno di scuola, ma concede comunque un provino. A questo appuntamento Ozzy Osbourne si presenta alla stregua di un matto semiritardato, con un guinzaglio a cui aveva annodato una scarpa, come fosse un animale domestico. Ozzy, oltre a portare dosi elevate al cubo di follia e una pressoché totale assenza di senso del limite, porta il chitarrista Geezer Butler che suonerà il basso. Così, completata la formazione, il gruppo sceglie di chiamarsi inizialmente Polka Tolka Blues Band, per poi mutare in Black Sabbath dal nome di un film di Mario Bava (“I tre volti della paura”, distribuito all’estero proprio col nome Black Sabbath).
Il periodo d'oro
La band è formata e pronta per l’esordio che avviene nel 1970 con un album che, bistrattato all’epoca (il solito provocatore Lester Bangs ne dirà peste e corna), ha tutte le caratteristiche per diventare pioniere di un nuovo tipo di suono, oltre a essere tra i migliori della loro carriera insieme al successivo “Paranoid”. L'hard-rock sta ancora muovendo i primi passi (si pensi che "In Rock" dei Deep Purple uscirà qualche mese più tardi mentre il celebre quarto album dei Led Zeppelin arriverà quasi due anni più tardi) ma già il quartetto di Birmingham mostra una nuova strada e un nuovo approccio.
Black Sabbath (febbraio 1970) è un manifesto del rock che si fonde con occultismo e satanismo, evoluzione definitiva di quello che avevano già fatto band come Coven o Black Widow, arricchendolo con un suono molto più rude e violento. La cover con una strega in un bosco con alle spalle una vecchia casa abbandonata è estremamente iconica e mefistofelica. Chi ha ascoltato per la prima volta la title track indossando le cuffie e guardando fisso la cover non può che ricordare con piacere quella sensazione di immedesimazione e di paura. Proprio la title track è il primo capolavoro della band, per certi versi il più autentico e puro della loro carriera. Pioggia e lampi per ricreare subito un paesaggio immaginario di buio e solitudine, a cui seguono due note lente e potenti, accompagnate dal suono di campane a morto. È un nuovo mondo, dove si è totalmente in balia del male; la rudezza della chitarra, la potenza del basso, i tempi lenti e i vuoti in cui si inserisce una batteria indemoniata sconvolgono il panorama dei primi anni 70. Ozzy declama parole di disperazione in quanto vittima prescelta del sabba, nessun dio può aiutarlo nonostante la struggente invocazione. Alla monolitica prima parte segue un accelerazione finale che mostra quanto le accuse di poca fantasia e poca tecnica siano semplicemente infondate. “Black Sabbath” colpisce innanzitutto per la sua semplicità (tre semplici note ripetute al massimo volume) ma in questa apparente semplicità si nasconde il genio di aver creato qualcosa che ancora nessuno era riuscito a fare con tale efficacia.
Il secondo capolavoro dell’album è “Sleeping Village”, lento e ipnotico arpeggio di chitarra che introduce un mondo di orrore onirico a cui segue “The Warning” che potrebbe essere un brano perfetto (la grandiosa intro di basso) se non indulgesse eccessivamente in lunghezza e in una jam-session che tradisce legami insospettabili con i maestri psichedelici. I restanti brani seguono il medesimo percorso tra occultismo e satanismo, dove sembra crearsi una contrapposizione tra una realtà borghese e conservatrice con la provincia o la campagna nichilista e ribelle, che vede in Satana non tanto una soluzione ma almeno una divertente fuga dalla realtà. “Evil Woman” e “The Wizard” giocano su questo tasto, il satanismo o la devozione verso il male sono un piacevole intrattenimento, non molto diverso dal vedere un film horror al cinema, trasponendo il tutto su basi hard-blues dal piglio zeppeliniano.
I critici non capiscono il vero messaggio dei Black Sabbath e prendono un clamoroso abbaglio relegando l’album nella categoria “sciatto” e “banale”. Il pubblico invece applaude e riesce a percepire in questo suono qualcosa che inconsapevolmente attendeva da anni.
Passano pochi mesi e la carriera del gruppo esplode con Paranoid (settembre 1970), l’album della celebrità ma anche della maturità mai più eguagliata. I Black Sabbath diventano adulti e non usano il tema horror a scopo di intrattenimento, ma si interessano agli orrori reali della guerra. Rallentato ulteriormente il ritmo e aumentata la potenza, ecco “War Pigs”, un superclassico hard-rock, tagliente, esasperante e monolitico. I “mostri” umani, i maiali portatori di guerra (più o meno i maiali dei Pink Floyd di “Animals” di sette anni dopo) sono ben più crudeli delle care streghe o degli anemici vampiri. Ma tutto l’album è un insieme di classici, a partire dalla title track, forse il brano hard & heavy più noto al mondo, seppur paradossalmente il meno significativo del disco.
“Planet Caravan” associa mondi apparentemente inconciliabili come esoterismo e psichedelia hippie, come anche vagamente la lenta e ipnotica “Electric Funeral”, macabra e oscura nonché anticipatrice di nuovi modi di suonare e intendere il metal, che anticipa il doom-metal. Il famosissimo riff di "Iron Man" è uno dei loro apici hard-rock, mentre “Hand Of Doom” è l’ennesimo squarcio verso il futuro, stavolta con sonorità funeree che trasfigurano le basi bluesy. Si ritiene inoltre che il titolo abbia ispirato il nome stesso del doom-metal. Nessuno avrebbe mai potuto immaginare che quattro ragazzi così male assortiti potessero raggiungere tali traguardi in meno di un anno. La breve strumentale “Rat Salad" è una jam-session dura e diretta con finale ancora una volta vagamente Grateful Dead senza eccedere in lunghezza. "Fairies Wear Boots" è l’ennesimo classico che torna all'epica del quotidiano, a quella lotta continua che è la vita dell’operaio della provincia inglese che trova salvezza (unica parentesi di non-morte in una vita in cui è difficile trovare uno scopo o un senso) solo nella musica o nella notte passata in un pub. L'epica di Osbourne è quella di chi vuole fermamente vivere, ma è anche cosciente di avere sempre la morte a fianco. Il ritmo giusto di questo modo di vivere è il lento flusso di note di questo neonato proto-doom, paragonabile ai lenti passi cadenzati di uno zombie.
Nel 1971 è la volta di Master Of Reality, Lp che conferma la ricetta di Paranoid e ne rappresenta fondamentalmente un'evoluzione ancora più cupa, grazie all'ulteriore ribassamento dell'accordatura (di un tono e mezzo). I tre grandi classici sono l’imitatissima "Children Of The Grave", sorta di Bibbia per qualunque aspirante musicista metal, “Lord Of This World”, altro riff dall'incedere che sarà tipico del doom e che si pone come figlio diretto di “Hand Of Doom”, e “Into The Void”, ancor più lenta e ossessiva. “Sweet Leaf” gioca la carta della trasgressione osannando la marijuana su una base che anticipa di vent'anni lo stoner-rock, mentre Iommi suona due brevi interludi strumentali (“Embryo” e “Orchid”) che mostrano insospettabili influenze classiche. “Solitude” svolta verso atmosfere lente e psichedeliche, addirittura con l’inserimento di un flauto che sembra una versione psych-folk di “Planet Caravan”.
Questa iniziale trilogia potrebbe essere definita quella del loro periodo classico, con tre album abbastanza simili tra loro e uno stile che è ormai riconoscibile. Non sempre il più apprezzato dai rocker più tradizionali, il disco è oggi è considerato un caposaldo per numerosi gruppi stoner, sludge e doom, che vi attingono con devozione.
I Black Sabbath potrebbero continuare a ripetersi, e secondo i loro principali detrattori non faranno altro nella loro carriera, ma in realtà non è proprio così.
Vol. 4 (1972) corona il loro periodo più ispirato e formalizza i canoni di un genere, rappresentando la naturale evoluzione di un percorso iniziato appena due anni prima. Vol. 4 porta all’estremo l’aspetto cupo e oscuro della band, raggiungendo un vertice nero mai più eguagliato.
Brani come “Snowblind” o il proto-doom di “Under The Sun” sono monolitici, ma inclini anche a una certa poetica nei testi. “Supernaut” potrebbe essere uno dei loro migliori brani in assoluto, perfetto a conciliare velocità e oscurità. "Wheel Of Confusion" si segnala soprattutto per il suo finale funambolico, “Cornucopia” è un nuovo capitolo doom, mentre "Change" è un'anomala ballata di solo piano e voce. "St. Vitus Dance" è infine un perno su cui si baseranno i gruppi stoner. Con loro quarto album la band chiude un cerchio, la trilogia diventa una tetralogia che non troverà seguito.
L'influenza progressive
L’accusa di replicare continuamente i medesimi stilemi, non infondata in effetti, viene decisamente superata con Sabbath Bloody Sabbath (1973), un album che imprime un cambiamento deciso e tutto sommato sorprendente. La svolta è verso la musica prog che in quegli anni riscuote grande successi sia artistici che commerciali, tanto chiara che la tastiera diventa parte integrante delle sonorità della band grazie alla collaborazione di Rick Wakeman, storico tastierista degli Yes oltre che leggendaria icona di tutta la musica prog.
È indubbiamente un album di svolta, una svolta che stranamente non vedrà un vero seguito, ed è anche probabilmente il loro ultimo grande contenitore di classici. Il vertice si raggiunge nei brani in collaborazione con Wakeman, soprattutto l’ipnotica e ammaliante “Who Are You?”, riuscitissimo incontro tra prog e mondo sabbathiano, un loop di synth tra il lisergico e lo stregonesco che dimostra quanto i Black Sabbath siano invero capaci di cambiare. La partenza della title track è un tagliente riff divenuto leggenda del rock tutto, fondamentalmente un manifesto della band che ammorbidisce i toni ma non i contenuti. Ne è la prova "A National Acrobat", che nasce con chitarra e basso a inseguirsi, oscuri figli maturi dei maiali da guerra di pochi anni prima.
“Fluff” ritorna ai brani acustici, ma stavolta con sopraffina ispirazione. "Sabbra Cadabra" è il secondo brano in cui il synth di Wakeman si fa sentire trasformando le favole progressive in inquieti scenari di sabba e streghe. Altro brano da segnalare è certamente “Killing Yourself To Live", che mostra quanto il nichilismo sia alla base della filosofia di Osbourne e compagni, non solo evasione e intrattenimento ma un approccio all’esistenza disincantato che farà scuola a intere generazioni di musicisti metal e non solo. Chiude “Spiral Architect”, addirittura con tappeti di violini dopo un’intro acustica.
Gli eccessi e l'inizio della crisi
I Black Sabbath sono ormai una delle band più famose del mondo, partiti dall’underground sono arrivati - con idee semplici ma molto coerenti e seguite con ostinazione - a forgiare un loro stile personale e riconoscibile, ridefinendo i canoni di un nuovo modo di intendere la musica delle nuove generazioni, dove l’amore per la vita è tanto forte quanto l’attrazione per la morte. L’eccesso diventa la loro quotidianità, troppi soldi, troppe donne, troppa droga, in una vita che ormai è totalmente assimilabile a quella che si immagina per una rockstar dello star system. Gli atteggiamenti di Ozzy sono sempre più estremi e iniziano i primi scricchiolii.
Passano due anni e si arriva a Sabotage (1975) che rispetto al precedente è un ritorno alle origini, quindi un passo indietro ma certamente dignitoso, con alcuni brani degni del loro marchio. "Hole In The Sky" è tra questi: una vera hit heavy potente e coinvolgente. "Symptom Of The Universe" è un nuovo monumentale inno doom immancabile in una ipotetica lista di brani esemplificativi del genere. "Megalomania" è il brano più originale, tra riff hard-rock e dilatazioni psichedeliche in stile “Planet Caravan" senza alcuna allusione collettiva, tutto è dentro la psiche contorta di Ozzy.
Il brano più interessante è "Supertzar", un ritorno alle atmosfere cupe di "Sleeping Village" con cori maligni e chitarre distorte a ricreare atmosfere cinematiche à-la Ennio Morricone. Notevole.
I veri sintomi di una crisi si palesano chiaramente con Technical Ecstasy (1976), più una raccolta di B-side esclusi precedentemente che un vero album compiuto. Non pessimo in generale, ma decisamente privo di idee.
Dopo il tour del 1977, Osbourne, ormai totalmente in balia di alcol e stupefacenti, abbandona il gruppo ma rientra poco dopo per registrare il suo ultimo Lp degli anni 70, Never Say Die! (1978), universalmente riconosciuto, non a torto, come minore. L’album si salva solo per la title track, un clone di "Hole In The Sky" con potenzialità da hit e la tastiera acida di “Johnny Blade”. Il resto non si fa alcuna fatica a dimenticarlo.
Gli anni con Ronnie James Dio
Il tour che ne segue vede un Osbourne totalmente in balia di se stesso, tanto estremo nei suoi comportamenti da costringere la band a “licenziarlo”. L’idea di sostituire un frontman tanto carismatico e amato dai fan non deve essere stata facile per la band che aveva ormai tutti i presupposti per potersi definire prossima al canto del cigno. Fatte queste premesse, la pubblicazione di Heaven And Hell (1980) può tranquillamente definirsi un piccolo miracolo. La scelta del sostituto cade su Ronnie James Dio, ex-Elf e Rainbow, una delle voci più iconiche del mondo hard & heavy. Il sound dei Black Sabbath cambia, da alcuni punti di vista diventa più moderno, forse per l'avvento degli anni 80 e del nuovo metal che si stava sviluppando (Iron Maiden e la New Wave Of British Heavy Metal), oppure per l’influenza di Dio e delle sonorità dei Rainbow.
Heaven And Hell rasenta la perfezione, con otto brani calibrati al millimetro, tutti potenziali nuovi classici metal. Dalla epica title track, con un riff memorabile, alla power ballad struggente “Children Of The Sea” a vari pezzi potenti e melodici (“Neon Knights”, “Wishing Well”, “Lady Evil”) e il testamento morale dello spirito metal più autentico “Die Young”, tutto fa ritenere che la band di Iommi si sia giovata dell’assenza di Osbourne e dei suoi comportamenti estremi e che una nuova fase ispirata possa aprirsi.
Proprio Ozzy Osbourne, dopo un lungo periodo di depressione e dipendenza, inizia una sua carriera solista con album di enorme successo commerciale, in cui avrà la sfortuna di assistere alla brevissima parabola artistica del chitarrista Randy Rhoads, sfrenato virtuoso dello strumento, morto giovanissimo nel 1982 a causa di un incidente aereo. Nel frattempo nei Black Sabbath c’è il secondo cambio nella line-up. Il batterista Bill Ward lascia la band per motivi familiari e viene sostituito da Vinny Appice, fratello del più noto Carmine, batterista dei Vanilla Fudge.
Da questa collaborazione nasce Mob Rules (1981), Lp che è tendenzialmente un clone del precedente sotto tutti i punti di vista. Si parte con la granitica “Turn Up The Night”, la struggente ballata “The Sign Of The Southern Cross” che sarebbe la nuova “Children Of The Sea”, l’insolita sperimentazione elettronica di “E5150”, le urla disperate della title track, un nuovo inno metal targato Black Sabbath.
L’album va avanti con stucchevoli citazioni dei Led Zeppelin (“Slipping Away” è quasi una cover) fino alla perla di “Falling Off The Edge Of The World”, che alterna un’intro lenta e poetica a un vorticoso riff da manuale che si allunga per quasi sei minuti per diventare uno degli ultimi grandi brani della band. Chiude un ottimo brano, una seconda ballata (“Over And Over”), ancora una volta non banale ma toccante e carica di emotività.
I "Black Purple"
Dopo il live Live Evil (1982), la collaborazione con Dio termina per motivi personali, con Iommi che lo definisce addirittura un “piccolo Hitler”. Lascia anche Appice, sostituito dal reintegrato Ward. Per la voce la scelta cade sulla leggenda dell’hard-rock Ian Gillan, ex-Deep Purple. La scelta da una parte è condivisibile, trattandosi di uno dei più grandi cantanti rock, da un’altra mostra quanto Iommi abbia in mente idee di retroguardia, ostinandosi a trovare nel passato soluzioni nuove, quando il metal nel 1983, con band come i Metallica, aveva già voltato decisamente pagina.
Ribattezzata dalla critica come Black Purple, la “nuova” band pubblica Born Again (1983) - giocando nel titolo con la sua terza rinascita, dopo Ozzy e Dio - album decisamente passatista, con qualche brano dignitoso ma indubbiamente dimenticabile. Gillan lascia poco dopo per ritornare ai Deep Purple e Iommi rimane addirittura solo, dopo che anche il bassista Geezer Butler forma la Geezer Butler Band.
Sembrerebbe il momento di fermarsi, ma Iommi tenta la carta solista e pubblicata Seventh Star (1986), furbescamente stampato a nome Black Sabbath quando invece è un Lp di Iommi con ospiti esterni, tra cui un’altra ex-voce dei Deep Purple, Glenn Hughes. L’album non aggiunge proprio nulla alla carriera della band, si segnala solo il tentativo di svolta pop-rock del brano “No Stranger To Love”, ormai in pieno rock anni 80, che prende a piene mani dalle ballate in stile Bon Jovi. La rivalità tra Iommi e Ozzy diventa sempre più marcata, ma nettamente a favore di quest’ultimo che negli anni 80 e 90 ha una carriera con molte soddisfazioni commerciali, con qualche brano di valore, buono per la generazione Mtv.
Gli anni con Tony Martin, una terza via
Sembra ormai tutto finito, ma Iommi tenta una nuova svolta con l’arrivo dell’ottimo cantante Tony Martin, dalla voce molto potente, definibile vagamente come una via di mezzo tra Dio e Gillan. Con The Eternal Idol (1987), si intravede una ripresa con nove brani tutti a firma Iommi ma ancora una volta non sembra lasciare il segno.
Decisamente superiori sono The Headless Cross (1989) e soprattutto Tyr (1990), con una svolta epica e ritrovate atmosfere gotiche, con l’ingresso del batterista ex-Rainbow Cozy Powell. Una croce celtica si staglia nella cover di The Headless Cross per fare da sfondo a una serie di riff imponenti (la title track) e rapidissimi (“When Death Calls”).
Tyr è ancora più convincente con le epiche “Anno Mundi” e “Jerusalem”, con la voce di Martin che non fa rimpiangere nulla del passato della band, la velocissima “The Law Maker” e una serie di brani dedicati alla mitologia nordica (“The Battle Of Tyr”, “Odin's Court”, “Valhalla”). È in effetti una piccola rinascita, anche se ormai i Black Sabbath sono diventati totalmente differenti dalla band degli anni 70. Da underground ai confini del mainstream, dal proletariato alla borghesia, il passo è stato breve e lo conferma la scelta di Iommi di abbandonare Martin per un ritorno al passato buono per fan nostalgici.
Le infinite reunion
D’ora in avanti la storia della band sembra quella di una famiglia allargata in continua alternanza di liti e riappacificazioni, degne di una soap opera sudamericana, con riconoscimenti dal mondo mainstream (un Grammy Award nel 2000) e addirittura una serie Tv ("The Osbournes"). La musica passa decisamente in secondo piano. Ciò nonostante, la generazione anni 90 e il rock indipendente americano ridefiniscono, giustamente, l'importanza storica del quartetto originario fino a issarlo in cima tra le più rispettate e venerate icone del rock tutto.
L’idea di tornare indietro di Iommi si traduce nel recupero di Dio alla voce (quello che pochi anni prima aveva definito "un piccolo Hitler"), di Geezer Butler al basso e di Vinny Appice alla batteria. Come spesso succede, questi album nostalgici per accarezzare il pelo dei fan più retrivi, registrati per puro scopo commerciale, non portano mai grandi risultati, e infatti Dehumanizer (1992) non ha davvero nulla da dire e sfigura rispetto ai due dischi storici con Dio degli anni 80 (Heaven And Hell e Mob Rules).
Sinceramente si fa fatica a comprendere il motivo di queste pubblicazioni. Questa reunion per interesse è destinata a finire rapidamente. Dio e Appice lasciano durante il tour, Dio viene sostituito al volo da Rob Halford dei Judas Priest.
L’ennesima reunion riporta Tony Martin e Geoff Nicholls, che insieme a Iommi, Geezer Butler e il nuovo batterista Bobby Rondinelli registrano Cross Purposes (1994). Rondinelli viene sostituito durante il tour da Ward che, come al solito lascia la band rapidamente, stavolta insieme a Butler.
L’anno dopo viene pubblicato Forbidden (1995), che insieme al precedente rappresenta l’infinita ripetizione di se stessi. Alcuni brani sono dignitosi, ma manca la poetica di Tyr.
Intanto Ozzy è una star celebrata che negli anni 90 riesce ancora a far parlare di sé, con qualche brano che supera senz’altro l’intera recente discografia dei Sabbath (uno su tutti il brano del 1991 “No More Tears”).
La reunion vera, cioè quella con Ozzy, è nell‘aria da tempo e viene anticipata dal live dell’Ozzfest del 1997, pubblicato nel doppio live Reunion (1998). La sua realizzazione viene però posticipata per motivi presumibilmente contrattuali. Nel frattempo i Black Sabbath partecipano a svariati festival metal e Iommi crea una “nuova” band, che è in pratica i Black Sabbath del primo periodo con Dio, a nome Heaven & Hell. Pubblicano The Devil You Know (2009), ma Dio pochi mesi dopo, nel 2010, muore a causa di un tumore alla stomaco.
La reunion definitiva
Il 2011 è però l'anno giusto per riprendere il discorso interrotto nel 1979, ma non tutto fila liscio: Iommi si ammala e Ward decide di lasciare, contrariato per alcune questioni contrattuali. Il 10 giugno 2013, l'annunciato ritorno è cosa fatta: tra squilli di tromba e miriadi di flash, esce nei negozi il già acclamato 13, che si posiziona subito in cima alle classifiche (in Inghilterra non accadeva dai tempi di Paranoid). L'album, composto da otto lunghe composizioni (più qualche bonus track) è prodotto da Rick Rubin e rispetta le attese del tifoso: roccioso, tetro, apparentemente inquietante, rispettoso della tradizione, anche troppo. Una copia carbone, con suoni aggiornati, delle gloriose gesta passate. Testi apocalittici, iconografia dark, tutto già sentito e risaputo. Ne è venuto fuori, dunque, un album pesante, nel senso di sfiancante, ben rappresentato dall’apertura paradossale di “End Of The Beginning”, ovvero, come si voglia rigirare la frittata, inizio e fine sono la stessa cosa. Esplosioni repentine, stop improvvisi (per modo di dire), momenti arpeggiati e riccamente tetri, il miagolio stravolto di Ozzy che canta di voci echeggianti nella testa (e magari sono i vicini spossati… ), squarci melodici che regalano un po’ di respiro.
Una lagna, quindi un disco perfetto che riporta a galla il più grande mito dell'heavy-doom. Grazie Tony, Ozzy e Geezer. Occhio però agli sbalzi di temperatura che intanto è esplosa l’estate.
Contributi di Davide Sechi ("13") e Alessandro Mattedi
Black Sabbath (Vertigo, 1970) | ||
Paranoid (Vertigo,1970) | ||
Master of Reality (Vertigo, 1971) | ||
Volume 4 (Vertigo, 1972) | ||
Sabbath Bloody Sabbath (Vertigo, 1973) | ||
Sabotage (Vertigo, 1975) | ||
We Sold Our Soul for Rock & Roll (Vertigo, 1975) | ||
Technical Ecstasy (Vertigo, 1976) | ||
Never Say Die (Vertigo, 1978) | ||
Heaven & Hell (Vertigo, 1979) | ||
Mob Rules (Nems, 1981) | ||
Live Evil (Vertigo, 1982) | ||
Born Again (Vertigo, 1983) | ||
Seventh Star (Warner, 1986) | ||
The Eternal Idol (Vertigo, 1987) | ||
Headless Cross (IRS/Metal, 1989) | ||
Tyr (Emi, 1990) | ||
Dehumanizer (Warner, 1992) | ||
Cross Purposes (Emi, 1994) | ||
Cross Purposes Live (1995) | ||
Forbidden (Emi, 1995) | ||
The Sabbath Stones (1996) | ||
Reunion (1998) | ||
Past Lives (Sanctuary 2002) | ||
Symptom of the Universe: The Original Black Sabbath 1970-1978 (2002) | ||
13 (Vertigo/Universal, 2013) |
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