La formula dei Queens Of The Stone Age non è mai stata originale, o innovativa; né Josh Homme ci ha mai voluto far credere di essere veramente quello che la critica internazionale scriveva di lui al tempo di fortunatissimi e riusciti exploit quali "R" o, di più ancora, "Songs For The Deaf". Tuttavia, la delusione celata nella fredda accoglienza riservata al recente "Lullabies To Paralyze" era stata già un primo indice di rivalutazione del fenomeno, forse trainata anche dalle obiezioni (pertinenti o meno che fossero) dei "puristi" alla defezione del bassista Nick Oliveri, uno dei pochi membri fissi del progetto.
Ora che però questo "Era Vulgaris", molto atteso dai fan della band (e forse, per una volta, solo da loro), si dimostra un buco nell’acqua ancora più grosso, è difficile soprassedere: la maestà dei Queens Of The Stone Age nel panorama rock statunitense rischia di venire scalfita in maniera stavolta ben più seria, si potrebbe temere – o auspicare – indelebile. Il songwriting di Josh Homme è diventato improvvisamente debole e stanco; costui inoltre, forse per il continuo giostrarsi fra side-project, rischia di far perdere un’identità propria a tutto quello che tocca con le sue mani. Non c’è da meravigliarsi se gli illustri interventi di collaboratori del calibro di Mark Lanegan (che segue la band dal 2000), Billy Gibbons (colonna storica dei barbuti Zz Top), Trent Reznor (anche conosciuto come la one man band Nine Inch Nails), Julian Casablancas (degli Strokes, oddio, forse "calibro" non è la parola più adatta) lasciano il tempo che trovano, anzi spesso non si possono neppure riconoscere: impersonale, piatto è proprio l’approccio che Homme sembra aver voluto adottare da un paio d’anni a questa parte nei confronti del suo lavoro.
Del resto "Era Vulgaris" non è neppure un album di mestiere, definizione che viene spesso ben comoda per mascherare il disappunto di chi si trovi di fronte a un opera senza picchi notevoli; in questo tristissimo scivolone è difficile anche riuscire a rialzarsi a una statura perlomeno accettabile. Accettabile è "Into The Hollow", che perlomeno abbina la propria sconclusionata frivolezza a una melodia orecchiabile e a un riff semplice ma non sempliciotto; accettabile è la già nota "Make It With Chu", che però aveva ricevuto trattamento di gran lunga migliore nell’ultimo capitolo delle Desert Sessions, grazie anche alla partecipazione di PJ Harvey. Accettabile è anche, arrangiamento entropico a parte, la litania di "River In The Road" (è qui Lanegan).
Il resto difficilmente si solleva da una palude di mediocrità sconcertante, soprattutto per chi aveva saputo accettare la bizzarra e velenosa leggerezza del disco precedente.
Il sound è uno dei punti più deboli dell’opera: non graffia mai, sembra una grottesca, involuta parodia degli ormai lontani fasti; fin dalla cadenza marziale dell’introduzione di "Turning On The Screw" si capisce come l’eccessiva pulsione a semplificare e alleggerire gli arrangiamenti abbia portato a un risultato paradossale, che smaschera tutte insieme le debolezze di un songwriting ai minimi storici. Ma i riff peggiori sono ben altri, purtroppo, come ad esempio quello, decisamente terribile, di "Sick Sick Sick" (pare che sia questo il contributo di Casablancas), o le dinoccolate ritmiche danzerecce di "Misfit Love", probabilmente il brano più sorprendente per la sua assoluta pochezza.
In conclusione, fra vagiti pseudo-discotecari, insopportabili ritornelli in falsetto che neppure i Kiss di "Dynasty", hook di una banalità stupefacente, la nuova strada tracciata da Josh Homme per i suoi Queens Of The Stone Age non sembra portare proprio a nulla, se non allo stordimento dell’ascoltatore, che, immerso in questa serie continua di brani insipidissimi, non riesce a salvarsi neppure premendo il tasto skip. Questo, perlomeno, un tempo ci era concesso.
10/06/2007