Il rock ci insegna che dalla tragedia e dal dolore spesso nascono i miracoli: questa volta il triste giro nella giostra delle anime perdute è toccato a Neil Young.
L'accoppiata di disastri accaduti al cantautore canadese avrebbe potuto stendere chiunque: in primavera gli viene diagnosticato un aneurisma al cervello che lo costringe a un'operazione d'urgenza; a giugno scompare l'amato padre Scott, gettando ulteriormente Neil in uno stato di prostrazione emotiva.
Tutto sembra nero e inutile, senza senso.
Neil passa ore e ore a riflettere sulla fragilità della vita, sulla famiglia e i suoi figli, la casa e le radici, la morte.
Poi, come sempre, arriva la Musica e salva la situazione.
Neil inizia a comporre, lentamente, prima, durante e dopo il ricovero all'ospedale di New York. L'album che ha in mente ha bisogno della tranquillità della campagna, la rilassatezza dei cieli delle praterie di Nashville. Dovrà sussurrare, far riflettere e commuovere, ma senza il feedback e la potenza delle chitarre elettriche.
Lascia di conseguenza "nella stalla" i Crazy Horse e coinvolge un pugno di ottimi strumentisti, fra cui l'amico fraterno Ben Keith (dobro, slide e uno strepitoso lavoro alla pedal steel guitar) e il mitico tastierista Linden "Spooner" Oldham, sessionman di lungo corso.
Tra le coriste, oltre alla moglie Pegi, svetta anche la bellissima sorpresa di Emmylou Harris.
Sono dieci le canzoni che compongono "Prairie Wind", ventottesimo album in carriera, registrato interamente nella capitale del Tennessee: l'autore non lo ammette pubblicamente, ma quasi tutti ne parlano come del terzo anello mancante della trilogia country/folk/rock iniziata con "Harvest" (1972) e proseguita con "Harvest Moon" vent'anni più tardi.
Il paragone è azzeccato, anche le circostanze: a pensarci pare macabro, ma a Neil capitarono disgrazie simili proprio durante quel primo capolavoro degli anni Settanta. Slittamento di un disco della colonna vertebrale e mesi di busto ortopedico per diverse ore al giorno. Neil che non riesce a sostenere il peso della chitarra elettrica: registra acustico a Nashville prima dell'intervento parecchio materiale che poi finirà su "Harvest".
Malinconia e solitudine bucolica dritte al numero uno delle classifiche americane.
Ma torniamo a noi, perché se quelle erano le insicurezze di un ventiseienne bruciato troppo presto da donne e fama, queste sono le riflessioni di un uomo maturo e adulto, un capo tribù ormai prossimo ai sessant'anni.
"Prairie Wind" indugia sul tema del tempo che fugge via ed è dedicato, non a caso, al padre e ad alcuni amici musicisti perduti per strada. I brani, contraddistinti dall'infantile, cristallino songwriting dell'autore, sono proposti in rigoroso ordine cronologico: si parte in sordina, con il pigro andamento del singolo "The Painter", ricco di armonie vocali alla maniera di Crosby Stills Nash & Young, chitarre acustiche e svolazzi di pedal steel.
Si sale pian piano, con l'apocalittica "No Wonder" e i cori femminili che si librano verso il cielo con il violino e la chitarra ad attorcigliarsi come serpenti.
La tenera, leggerissima "Falling Off The Face Of The Earth" è un ringraziamento ma anche una lettera da condannato a morte, suonata con svagato piglio pop-country.
Si prosegue nel viaggio ed ecco i pezzi migliori: "Far From Home", un up-tempo country rock con sezione fiati, a metà strada fra i Lynyrd Skynyrd e il soul della Stax (non a caso vi suona Wayne Jackson, leader dei veterani Memphis Horns). Young si abbandona alle memorie del natìo Canada, del padre e della volontà di essere sepolto "dove vaga il bufalo".
"It's A Dream" è il culmine del pessimismo onirico del disco, un sortilegio fatto di archi, piano, organo e pedal steel. Il tempo pare sospeso, le atmosfere rimandano alle cose migliori registrate in coppia al genio di Jack Nitzsche, altro amico prematuramente scomparso. Il cuore del progetto è tutto in questa composizione eterea, in cui anche il quotidiano con le sue piccole storie viene messo in discussione: "It's only a dream and it's fading now/ fading away/ just a memory/ without anywhere to stay".
La title track è invece l'altra faccia della medaglia: un numero di infernale western fuorilegge, tutto polvere e fango: sette minuti di ritornelli ossessivamente ripetuti dalle voci femminili, l'armonia e la chitarra acustica decisa e circolare, tutta tesa a distribuire rasoiate degne di "Rust Never Sleeps".
Fortunatamente torna il sereno e le nuvole scompaiono assieme a "Here For You", dolcissima dedica di un padre ai suoi figli, ormai indipendenti e lontani.
C'è persino uno spazio per le dediche: "This Old Guitar" è un ode alla vecchia sei corde di Hank Williams, suonata e raccontata da Neil con tutto il doveroso rispetto reverenziale. La voce si arrochisce e si abbassa di tonalità, mentre la chitarra tratteggia mini citazioni dal riff base di "Harvest Moon".
Il secondo omaggio, "He Was The King", è ovviamente per Elvis Presley, figura mitologica e metafora di innocenza rock perduta.
"When God Made Me" chiude le pagine del disco con un'inaspettata virata verso il soul-gospel: pianoforte e organo hammond, donne e uomini insieme per un canto corale che è un invocazione a Dio e insieme messa in discussione di alcuni capisaldi religiosi fondamentali.
Il pathos raggiunge l'apice proprio quando il disco è finito, lasciando ancora col fiato sospeso.
Neil Young è lontano come sempre, lontano più che mai: dalle mode, dalla politica dei giochi di potere, dall'industria e dal business.
Quando le cose della vita si complicano, ama allontanarsi dalla pazza folla, rifugiarsi là dove nessuno può trovarlo, per poi raccontare tutto con la chitarra e le canzoni.
E noi lì ad ascoltarlo, adesso come trent'anni fa: di nuovo abbracciato alla campagna, tra bufali, ricordi e cieli nella prateria.
10/12/2006