Se anche fossero arrivati in paradiso, si sarebbero spostati più a Ovest
se avessero sentito che da quella parte c'era qualcosa di meglio
(John Miller, "Origins of the American Revolution")
Campo lungo sull'orizzonte. La pianura deserta tagliata da un nastro d'asfalto, una figura in lontananza. Carrellata avanti. Primo piano sull'uomo lungo la strada: un vagabondo, un avventuriero. Un'anima solitaria in attesa di una macchina diretta lontano.
Inizia così il western contemporaneo di
Bruce Springsteen, mentre sullo sfondo un intreccio di banjo si accompagna al tintinnare del glockenspiel. Lo dice da sempre, Springsteeen, che le sue canzoni sono dei film. Ma "Western Stars" è il più cinematografico dei suoi diciannove album in studio. Gli archi avvolgono subito la melodia, come nella colonna sonora di qualche vecchio classico hollywoodiano: "I'm hitch hikin' all day long", e l'America scorre attraverso gli incontri di un viaggio in autostop.
Un disco solista, il primo dopo quattordici anni: quasi automatico aspettarsi il ritorno del
folksinger di "The Ghost Of Tom Joad" e "
Devils & Dust" (se non proprio dell'irripetibile "
Nebraska"). Ma la direzione, stavolta, è un'altra: lo mette in chiaro già la presentazione dell'album, che addita come influenza principe il pop californiano degli anni Sessanta e Settanta. Archi a profusione, fiati squillanti, echi
twang, languore
countrypolitan. I paragoni con il
Glen Campbell di "Wichita Lineman" e con l'
Harry Nilsson di "Everybody's Talkin'" si sprecano.
In realtà, Springsteen aveva già provato a inseguire suggestioni del genere una decina d'anni fa, in certi passaggi del fallimentare "
Workin' On A Dream". "Western Stars" riesce a trovare il suo punto di equilibrio nei momenti più asciutti, quelli in cui gli arrangiamenti si prestano ad assecondare l'andatura polverosa dei brani senza cercare di sovrastarla: il crescendo della
title track assume un sapore
morriconiano, il lirismo di "Drive Fast (The Stuntman)" si lascia condurre dalla
pedal steel. A volte le orchestrazioni fungono da semplici
riff (vedi l'iper-springsteeniana "Tucson Train"), a volte aspirano a un respiro più sinfonico ("Chasin' Wild Horses" su tutte).
Nella seconda parte del disco, però, comincia ad affacciarsi pericolosamente l'ombra di quello che gli americani chiamano
schmaltz, ovvero la saturazione del sentimentalismo: difficile definire diversamente la magniloquenza
larger-than-life di "There Goes My Miracle" o di "Sundown". E anche un brano come "Stones", che avrebbe avuto tutte le carte in regola per essere un perfetto apocrifo di "Tunnel Of Love", suona alla fine sovraccarico di enfasi.
Nel mezzo, non manca neppure il classico numero da E Street Band ("Sleepy Joe's Café"), che qui lascia l'impressione di una parentesi un po' avulsa dal contesto, ma che sui palchi dei prossimi tour si candida già a dilatarsi in festosa
jam session, su una danza di fisarmonica, organo e fiati tex-mex. In rappresentanza della grande famiglia della band, del resto, non ci sono solo le immancabili Patti Scialfa e Soozie Tyrell, ma in un paio di episodi anche il tastierista degli inizi, David Sancious (anche se il vero ospite d'onore dell'album è l'eclettico Jon Brion, per l'occasione nelle vesti di polistrumentista).
Il mito della frontiera campeggia su "Western Stars" sin dalla copertina, con quel cavallo selvaggio e quel cielo imponente che sembrano rubati a un romanzo di Cormac McCarthy. Un grande classico della poetica
springsteeniana, tanto che "The Wayfarer" ammicca con autoironia al luogo comune del "nato per correre": "It's the same old cliché, a wanderer on his way, slippin' from town to town".
Ma il West di Springsteen, stavolta più che mai, è la linea di confine della sconfitta. Attori al tramonto, stuntman malandati, cantautori in disgrazia: i protagonisti delle vite parallele di "Western Stars" sembrano ostaggi dei loro sogni incompiuti, rassegnati al trascorrere del tempo tra una pillola blu e una bevuta in onore dei giorni di gloria.
"I lie awake in the middle of the night/ Makin' a list of things that I didn't do right", sussurra Springsteen sull'arpeggio in chiaroscuro di "Somewhere North Of Nashville". Solo il fallimento riesce a capovolgere la prospettiva, a farci riconoscere la verità del nostro desiderio: abbiamo inseguito per tutta la vita la strada, ma quello che cercavamo era una casa; abbiamo venduto tutto per una canzone riuscita, ma quello che volevamo era l'amore che abbiamo dato in cambio.
Il momento più intenso del disco arriva alla fine, sulla carezza amara di "Moonlight Motel": un parcheggio deserto, una bottiglia di whisky, i fantasmi del passato. E ancora una volta una voce dentro, nel cuore della notte: "I woke to something you said/ That it's better to have loved, yeah, it's better to have loved".
Scorrono i titoli di coda, ma per chi ha amato davvero non può mai essere tutto invano. Forse domani, sul prossimo treno, ci sarà proprio lei. Quella che pensavi di aver perso per sempre.
18/06/2019