Autore: Carl Wilson
Titolo: Musica di merda
Editore: Isbn Edizioni
Pagine: 302
Prezzo: Euro 23,00
Avete mai provato a fare una ricerca su Céline Dion tra le pagine del forum di OndaRock?
Potreste imbattervi in commenti del genere: “La legherei con delle catene alla prua del Titanic per poi osservare compiaciuto mentre sprofonda nelle gelide acque dell’oceano”; o anche: “È la dimostrazione scientifica che dietro l’aspetto da boyscout dei canadesi si nasconde una cattiveria senza pari”; per finire con un liberatorio: “Dio come mi dà sui nervi quella cavalla imbolsita”…
La domanda, a questo punto, sorge spontanea: che cosa ci ha fatto di male Céline Dion? Da dove viene tutto questo odio? E perché, soprattutto in campo musicale, l’identità del proprio gusto finisce per esprimersi pressoché inevitabilmente nel disprezzo del gusto degli altri?
Proprio da questi interrogativi è partito lo scrittore e giornalista canadese Carl Wilson per dare vita a un saggio che, nell’edizione italiana, porta un titolo decisamente provocatorio: “Musica di merda. Parliamo d’amore e di Céline Dion, ovvero: perché pensiamo di avere gusti migliori degli altri”.
Pubblicato nella sua prima versione nel 2007, il libro è nato in origine all’interno della collana 33 1/3 della Bloomsbury Publishing, dedicata all’analisi di singoli album più o meno miliari nella storia del rock e del pop. In questo caso, il tema era appunto “Let’s Talk About Love” di Céline Dion, quello con la famigerata “My Heart Will Go On” di “Titanic”. Una scelta dovuta a una ragione ben precisa: proprio come ogni buon OndaRocker, Wilson ha sempre odiato con tutto il cuore la musica di Céline Dion (“una blanda monotonia gonfiata fino a fastidiosi livelli di magniloquenza”, la definisce). In più, c’era anche una personalissima ragione di risentimento: averla vista trionfare contro Elliott Smith nella notte degli Oscar del 1998, in una sorta di “Colosseo gladiatorio in cui i fragili emissari dell’arte sarebbero stati travolti dai carri tonanti della cultura di massa”.
Un disprezzo talmente viscerale da condurlo a porsi una domanda più radicale: “Perché ciascuno di noi odia alcune canzoni, o l’intera produzione di alcuni musicisti, che milioni e milioni di altre persone adorano?”. Per rispondere, Wilson ha deciso di affrontare di petto l’oggetto del suo odio: imponendosi l’ascolto analitico di “Let’s Talk About Love”, studiando la carriera di Céline, andando a cercare i suoi fan e spingendosi persino a Las Vegas per un faraonico concerto della popstar canadese.
Il risultato finisce per essere molto più di un semplice libro su un artista o su un disco: diventa una riflessione a tutto campo sul gusto musicale, più che mai stimolante in un’epoca come la nostra, in cui tutta la riflessione critica sulla musica sembra ridursi soltanto alla sterile dicotomia “mi piace/non mi piace”. Una vocazione enfatizzata ancora di più dalla nuova edizione del libro, che aggiunge al testo originario, oltre a una nuova postfazione, una raccolta di saggi firmati da una serie di nomi di tutto rispetto non solo del mondo della critica, ma anche della musica e dello spettacolo (da Krist Novoselic a Owen Pallett, fino a Nick Hornby e James Franco, solo per citare i più noti).
La legge dello “schmaltz”
Il viaggio alla scoperta di Céline offre anzitutto a Wilson l’occasione di tracciare una breve storia di quello che definisce emblematicamente “schmaltz”: ovvero, prendendo spunto da un termine yiddish nato per definire nientemeno che il grasso di pollo, “qualunque momento musicale saturo di palese sentimentalismo”. Partendo dalla parlor music dell’Ottocento e dalla musica operistica italiana, importate dagli emigranti europei e mescolate nel Nuovo Mondo in unico carrozzone melodrammatico. Per poi arrivare a Elvis e alle power ballad degli anni Settanta e Ottanta, fino a coniare la perfetta ricetta dell’“iperschmaltz”, quel “Frankenstein di pura intensità sentimentale” che oggi troviamo a dettare legge praticamente in qualunque talent musicale del globo.
Lo “schmaltz” si risolve insomma in una sorta di rappresentazione di “autentica inautenticità”, una spettacolarizzazione del sentimento in cui il ruolo determinante spetta al mito della “grande voce”. Sul versante opposto, stanno schierati gli idealisti della purezza artistica: “Tutti gli eredi di Bob Dylan che trascurano la musicalità convenzionale per isolare ciò che Roland Barthes chiama 'la grana della voce' stanno esplicitamente disprezzando la misura standard dell’intrattenimento e le ambizioni che essa rappresenta”. Ma non è detto che la loro posizione sia necessariamente più vera di quella dei seguaci di 'X Factor'”.
La questione si fa più sottile: esiste una qualche forma di oggettività nel gusto artistico? Una questione ben nota anche su queste pagine, che si ripropone puntualmente nel dibattito intorno a ogni nuova pietra miliare o al momento della pubblicazione di una qualsiasi classifica: “Sto elencando solo i dieci film o libri o album che mi sono piaciuti di più l’anno scorso, o sto affermando che queste dieci opere sono di fatto le migliori o le più significative?”.
Per qualcuno la risposta è una semplice equazione: l’oggettività coincide con l’importanza storica. Ma, secondo Wilson, si tratta di un’idea entrata ormai irrimediabilmente in crisi con lo sdoganamento sistematico della cultura pop: “Se i critici negli anni Settanta erano così in torto sulla disco, perché non oggi su Britney Spears?”. Il revisionismo critico, insomma, avrebbe introdotto una diffidenza di fondo rispetto alla possibilità stessa di fare affidamento sulla storicizzazione. Perché l’approccio storicista “sembra implicare che i giudizi critici siano più obiettivi e durevoli degli altri, mentre la storia ci mostra il contrario”.
Anche il tentativo della neurobiologia di ancorare il gusto musicale a fattori misurabili scientificamente non ha portato a risultati migliori. La soluzione, allora, potrebbe essere quella più immediata e “democratica”: il gusto più popolare è per ciò stesso anche quello più oggettivo. In questo modo, però, per Wilson si finisce per sottostimare il ruolo dell’imitazione nella definizione del gusto. Lo ha messo in luce un gruppo di sociologi della Columbia University, dimostrando che, se si dà la possibilità a un campione di ascoltatori di vedere quali sono le canzoni più scaricate dagli altri, la popolarità delle canzoni che superano un certo numero di download finisce per autoalimentarsi in maniera esponenziale.
La vulgata post-moderna, all’opposto, vorrebbe legare l’oggettività all’innovazione, alla categoria dell’originalità in sé e per sé. Ma anche in questo caso, citando lo storico Lawrence W. Levine, Wilson fa notare che “apprezzare l’arte per la sua novità o il suo radicalismo è una fallacia moderna, contraddetta da secoli di artisti folk che trovavano la propria funzione nell’incarnare le credenze e i significati delle rispettive culture in un linguaggio che potesse essere compreso dai loro simili”.
Del resto, quanto può valere il criterio della novità quando tutto è stato ormai sperimentato, quando le avanguardie hanno lasciato il posto alla “retromania”? “Tra gli stessi artisti il continuo processo di violazione dei limiti sembra aver raggiunto un termine, o perlomeno un momento di stanca, e il suo posto viene preso da un eclettismo secondo cui qualunque cosa è valida”.
Il risultato, allora, è la frammentazione del gusto che caratterizza il nostro tempo, la creazione di una miriade di nicchie a compartimenti stagni sempre più settoriali e avulse le une dalle altre. “Anche se gli ascoltatori di indie-rock e di musica classica, gli appassionati di fantascienza e di architettura, i rockabilly e i swing kids, i maniaci dell’hip hop e i ballerini di salsa credono tutti fermamente nei propri gusti, nel complesso si sono acclimatati alla nozione che 'mondi del gusto' separati possano coesistere pacificamente”.
De gustibus?
Dobbiamo rassegnarci quindi al definitivo tramonto di quell’idea di universalità del gusto - e in ultima analisi di universalità della bellezza stessa - che ha percorso il pensiero filosofico da “La regola del gusto” di Hume alla “Critica del giudizio” di Kant (analizzati anch’essi acutamente da Wilson nel suo percorso)? Dobbiamo rassegnarci al fatidico de gustibus che tronca con una scrollata di spalle la maggior parte delle discussioni musicali internettiane?
Per Wilson la questione va spostata dall’astratto al concreto, facendo i conti con la realtà dei fattori che influenzano la nostra concezione di gusto. Lo spunto viene da un saggio del sociologo francese Pierre Bourdieu (“La distinzione: critica sociale del gusto”), secondo cui un giudizio estetico disinteressato, alla maniera kantiana, semplicemente non esiste. Il gusto ha sempre a che vedere con gli interessi sociali, è un modo per distinguerci dagli altri: disprezzare Céline Dion significa affermare di essere diversi da quelli che ascoltano Céline Dion. “L’inferno è la musica degli altri”, ha scritto una volta Momus su “Wired”. E spesso la pensiamo così un po’ tutti quanti.
“Le sottoculture musicali esistono perché la pancia ci dice che certi tipi di musica sono per certi tipi di persone”, riflette Wilson. Il che fotografa alla perfezione certe pose indie-snob diventate ormai fin troppo familiari: “Il cliché indie rock 'ascoltavo quel gruppo una volta' - ovvero prima che piacesse a gente come te - è un esempio lampante di distinzione in atto”.
Non è un caso che proprio l’analisi dei gusti sia diventata la strategia commerciale principe sul web (Google docet), in quella che Wilson paragona a una sorta di versione riveduta e corretta della distopia di “Gattaca”, “con le preferenze culturali al posto della genetica”.
Per usare un’analogia economica, il gusto diventa il proprio “capitale culturale”. Dichiarare il proprio odio per Céline Dion non è altro che un modo di rivendicare il proprio capitale culturale, ma paradossalmente lo è anche avere la capacità di sdoganarla: “Avere un 'piacere colpevole' può essere un valore in questo sistema di capitale culturale, perché suggerisce che si è così cool da potersi permettere di rischiare con qualcosa di sciocco, inelegante e imbarazzante - il che ci rende ancora più cool”.
È questione di capitale culturale, in fondo, anche l'abusatissimo proclama “Io ascolto di tutto”: secondo lo studio di alcuni sociologi americani, a partire dalla metà degli anni Novanta sarebbe diventato proprio questo il modello di gusto delle classi elevate, “passando da un ideale 'snob' a uno 'onnivoro', in cui la cosa più cool per una persona benestante e beneducata è consumare un po’ di alta cultura insieme a mucchi di cultura popolare”. D’altro canto, ha ancora senso continuare a contrapporre indie e mainstream quando persino Miley Cyrus sembra pronta a investire in capitale culturale mettendosi a fare un disco al fianco dei Flaming Lips?
Merda e non-merda
Prendere coscienza dei fattori che ci influenzano può diventare però il primo passo per non lasciare che ci condizionino. Perché, come sottolinea Wilson, quello che Bourdieu sembra dimenticare è che “non abbiamo cominciato ad amare la bellezza, apprezzare le canzoni, a dipingere quadri e a discuterli solo per avere un vantaggio competitivo. Anche se possono essere state in parte sagomate a questo scopo, noi facciamo queste cose in modo fine a se stesso, per tutti i benefici che vengono tradizionalmente attribuiti all’esperienza artistica”.
Ecco allora, proprio di fronte ai megaschermi di un palco di Las Vegas, la rivelazione: può darsi che non ci sia poi tutta questa differenza, in realtà, tra il critico indie e il fan di Céline Dion. Chi ama Céline, come ogni seguace dello “schmaltz” che si rispetti, avrà probabilmente un’attrazione fatale per l’eccesso di sentimentalismo. Ma, si interroga Wilson, siamo proprio sicuri che l’enfasi in nome della rabbia e del risentimento di una sfuriata punk sia più nobile dell’esagerazione a favore dell’amore e delle relazioni di una power ballad? Il sentimentalismo trascura il lato oscuro dell’animo e della realtà, certo, ma “in gran parte dell’arte moderna certificata dalla critica ciò che avviene è una negazione della non-merda, di tutto ciò che è accettabile nell’esistenza umana”.
La linea di demarcazione, forse, è meno netta di quanto siamo soliti pensare. Se i bisogni, le emozioni, le speranze con cui ci accostiamo alla musica, pur nella diversità delle declinazioni, condividono al fondo la medesima radice, “il gusto somiglia meno a un gruppo di cricche del liceo o a una cospirazione globale del privilegio, e più a un mondo fantasy” pieno di sfaccettature differenti. E anche la tanto vagheggiata rilevanza “storica” di una canzone finisce per non essere necessariamente più importante della sua rilevanza nella storia affettiva di ciascuno.
La parola-chiave, allora, non è più “distinzione”, ma “immedesimazione”. Non certo per diventare tutti fan di Céline Dion (perché “non sarebbe una soluzione dire che dobbiamo amare tutto, che equivale a non amare nulla”). Ma per “imparare ad aggrapparsi attivamente alle persone e alle cose diverse da me, che mettono pericolosamente in discussione il modo in cui sono fatto”.
Una conclusione troppo semplicistica? In realtà, l’intuizione più originale di Wilson è proprio questa: come scriveva Proust, anche la musica che detestiamo è piena del sogno e delle lacrime degli uomini. Immedesimarsi nella musica degli altri è immedesimarsi nel cuore degli altri, alla ricerca di un punto capace di accomunarci. Un punto di incontro reale al posto della solita battaglia per chi ha il gusto migliore.
L’alternativa al relativismo, in altre parole, è guardarsi intorno per cogliere quella corrispondenza che nasce quando scatta una connessione, una sintonia con qualcosa che è già presente dentro di noi, nel profondo. Qualcosa a cui il critico musicale Sukhdev Sandhu, negli interventi che fanno da corollario al libro, prova alla fine a dare un nome: desiderio.
È proprio l’amore per l’elemento del desiderio nella musica, spiega, quello che la lettura del saggio di Wilson gli ha fatto riscoprire. Non la musica che impartisce ordini, quella che tratta la vita come “una lista di desideri e di impulsi da soddisfare”, ma la musica “che non può avere quello che vuole”. Quella musica capace di “appallottolare insieme tutta la merda e la non-merda dell’universo”, per usare ancora le parole di Wilson, guardando la realtà per ciò che è. Che sia questa la strada per recuperare quella che Nick Hornby definisce l’inclusività perduta della musica pop?
“Non magnificare la musica per la sua neofilia, o per i suoi legami con una sottocultura sociologica concettualmente intrigante, sarebbe una sfida per quasi tutti i critici musicali”, aggiunge Sandhu. “Ma forse li lascerebbe liberi di sviluppare un approccio di pensiero più ricco e profondo”. Non smettere mai di cercare la musica del desiderio: bella missione per un critico musicale.
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