"Bruce Springsteen è un archetipo americano", scriveva Lester Bangs recensendo "Born To Run" su Creem nel 1975. Un archetipo dell’"American dream" nella verità del suo impeto originale.
È l’epica stessa del rock ‘n’ roll che si respira nella musica di Springsteen: a rendere grandiosa l’apparente ordinarietà delle sue storie di provincia e di strade secondarie è lo slancio verso l’infinito che anima il cuore dei protagonisti. Perché l’epica è il quotidiano che diventa eroico e l’eroico che diventa quotidiano. E così la statura umana non è più definita dai fallimenti e dalla disillusione, ma unicamente dalla grandezza delle promesse a cui aspira.
Il classico adagio dei fan di Springsteen recita che il mondo si divide in due parti: chi ama Springsteen e chi non l’ha mai visto dal vivo. Ma fino ad oggi l’epica springsteeniana non era mai riuscita a essere degnamente immortalata su disco nella sua dimensione live . A porre rimedio a questa lacuna, cui hanno sopperito nel corso degli anni miriadi di bootleg avidamente consumati dai fan, ci pensa ora questo "Hammersmith Odeon, London ‘75", cronaca fedele di uno dei concerti storici del primo Springsteen.
Con la brillantezza di un suono tirato a lucido dal mix di Bob Clearmountain, ecco quindi emergere dagli archivi il primo concerto di Springsteen nel Vecchio Continente, ospitato dal teatro Hammersmith Odeon di Londra e già allegato in versione Dvd, qualche mese fa, al cofanetto celebrativo per il trentesimo anniversario di "Born To Run".
È la fine del 1975 quando Springsteen e la E Street Band sbarcano a Londra: "Born To Run" ha fatto solo da qualche mese la sua comparsa nei negozi di dischi e Bruce è appena finito contemporaneamente sulla copertina di "Time" e di "Newsweek". L’attesa per il debutto inglese di quello che viene presentato come l’ennesimo "nuovo Bob Dylan" è spasmodica. Come racconta lo stesso Springsteen nelle liner notes del disco, "l’intera città, o quantomeno quella parte che era interessata alla musica pop, sembrava pronta per… una festa? un funerale? un’incoronazione? un’impiccagione? tutto questo insieme?".
L’insegna che campeggia sull’Hammersmith Odeon proclama a caratteri cubitali: "London is finally ready for… Bruce Springsteen". La Columbia ha fatto le cose in grande per dare la massima risonanza all’evento e il teatro è tappezzato di poster e volantini dai toni messianici. Bruce, nervoso per l’esame che lo aspetta di fronte al pubblico inglese, si sente come se qualcuno stesse cercando di derubarlo della sua musica e comincia a stracciare tutto il materiale promozionale che trova sulla sua strada. "Sembrava impazzito, diede praticamente fuori di testa…", racconta il manager dell’epoca, Mike Appel.
Quello che è certo è che a nascere da questo clima infuocato non è un qualunque concerto di Springsteen. C’è una tensione febbrile che serpeggia sul palco e che sostituisce la consueta solarità giocosa degli show del rocker americano con un più drammatico e catartico senso di urgenza.
La E Street Band, da non molto stabilizzatasi nella propria formazione "classica", non ha ancora raggiunto quell’affiatamento che la renderà una delle più formidabili macchine da rock ‘n’ roll della storia, ma è piena di un entusiasmo ribollente. Bruce, dal canto suo, sembra completamente immerso nella propria musica e si lascia andare raramente al puro divertimento della performance , come quando durante "Spirit In The Night" si mette a cantare nascosto in un anfratto del palco, tra le risate del pubblico.
È uno Springsteen quasi intimidito quello che si presenta solitario davanti al microfono, con una giacca di pelle e un cappello di lana calato sul volto, incorniciato da un’ispida barba scura. Ma la sua voce carica di lirismo acquista lentamente vigore, mentre le note del pianoforte di Roy Bittan si innalzano come un carillon doloroso. "The screen door slams / Mary’s dress waves". È una rarefatta "Thunder Road" ad accogliere la platea londinese, affidata solo al piano e alla voce, come quella contenuta nell’antologia "Live 1975-1985".
Poi entra in scena la E Street Band al completo, con la sua pittoresca immagine che sembra venire da una scena de "Il padrino", e subito la contagiosa energia targata Stax di "Tenth Avenue Freeze-Out" rende incandescente l’atmosfera.
Prima degli stadi, prima del successo planetario, prima di diventare il Boss, lo Springsteen del 1975 è ancora quel "futuro del rock ‘n’ roll" preconizzato da Jon Landau e la sua musica è un orizzonte selvaggio fatto di strade senza fine, alla ricerca della terra promessa."Le domande sulle quali avrei scritto per il resto della mia carriera presero forma per la prima volta nelle canzoni di 'Born To Run': mi lasciai dietro le definizioni adolescenziali di amore e libertà", ricorda a distanza di anni Springsteen.
Sul palco londinese i brani si dilatano all’inverosimile, superando i 17 minuti nella torrenziale jam session jazzistica di "Kitty’s Back". Le chitarre di Bruce e Little Steven si intrecciano roventi, unendo Chuck Berry, Stones e Who in un’unica, esplosiva miscela, mentre il sax di Clarence Clemons colora di r’n’b la festa.
Come nell’iniziale "Thunder Road", Springsteen recupera le radici folk-rock degli esordi anche nell’essenzialità struggente di "Lost In The Flood" e "For You", lasciando che la sua vena più romantica venga carezzata dalla fisarmonica che il tastierista Danny Federici imbraccia in "4th of July, Asbury Park (Sandy)".
Ma dal momento in cui Bruce impugna la sua leggendaria Fender Telecaster in "She’s The One", a dominare la scena è il roccioso wall of sound spectoriano di "Born To Run", che raggiunge l’apice in inni come "Jungleland", "Backstreets" e "It’s Hard To Be A Saint In The City".
E per il gran finale, dopo la spensieratezza adolescenziale di "Rosalita (Come Out Tonight)", ecco l’immancabile omaggio alle scintillanti oldies da juke-box anni Cinquanta, prima con l’immancabile "Detroit Medley" di Mitch Ryder, che inanella in fulminante sequenza "Devil With A Blue Dress On", "Good Golly Miss Molly" e "Jenny Take A Ride", e poi con la sarabanda di falsi stop di "Quarter To Three". "Certe notti, durante il "Detroit Medley", puoi sentire l’urlo della gente che cattura la notte intera", confessa Bruce.
Insomma, "Hammersmith Odeon, London ‘75" è davvero una documentazione imprescindibile dell’energia sprigionata sul palco da Springsteen e dalla E Street Band, più dell’ambizioso ma frammentario "Live 1975 — 1985", più dello scialbo "In Concert: Mtv Unplugged" e anche più di "Live In New York City", che nonostante la sua forza fotografa pur sempre un Bruce ormai ultracinquantenne.
Nella speranza che, sul modello dylaniano, questo possa essere solo l’inizio di una vera e propria collana di "Bootleg Series" capaci di rendere giustizia all’epopea live di Bruce Springsteen.
03/04/2006
Disc 1:
1. Thunder Road
2. Tenth Avenue Freeze-Out
3. Spirit In The Night
4. Lost In The Flood
5. She's The One
6. Born To Run
7. The E Street Shuffle
8. It's Hard To Be A Saint In The City
9. Backstreets
Disc 2:
1. Kitty's Back
2. Jungleland
3. Rosalita (Come Out Tonight)
4. 4th Of July, Asbury Park (Sandy)
5. Detroit Medley
6. For You
7. Quarter To Three