C’era una volta un ragazzo del New Jersey. Potrebbe venire da qualche pagina di Kent Haruf, la sua storia di provincia. No, non la sua epopea: quella l’abbiamo già vista in giro per gli stadi di tutto il mondo. La sua leggenda minore, quotidiana, ordinaria. Quella fatta di matrimoni e funerali che attraversano le strade del quartiere, degli odori di una fabbrica di caffè che si diffondono nell’aria nelle giornate di pioggia, degli echi di voci che chiamano i bambini a casa per la cena. Quella meno appariscente, e forse proprio per questo quella capace di entrare più nel profondo.
“Springsteen On Broadway” è prima di tutto un racconto. Le parole contendono i riflettori alla musica, e la musica si spoglia per dare respiro alle parole. Quasi un audiolibro con colonna sonora, più che un tradizionale live acustico. Bruce Springsteen ha calcato il palcoscenico del Walter Kerr Theatre per più di un anno, portando in scena una sorta di rappresentazione teatrale della sua autobiografia. Il doppio cd che ne è scaturito, inevitabilmente, non è fatto per un ascolto distratto. Senz’altro aiuta l’accompagnamento del contraltare visivo girato da Thom Zimny, uscito su Netflix in contemporanea al disco. Ma una cosa è certa: l’attenzione che richiede è destinata a essere ampiamente ripagata.
La prima confessione del cantastorie, davanti alla platea del piccolo teatro newyorkese, è che il poeta è un fingitore. “Non ho mai visto l’interno di una fabbrica, ed è l’unica cosa di cui ho sempre scritto”, scherza. L’uomo nato per correre è uno che ha finito per abitare a dieci minuti dalla propria città natale. Uno che è diventato famoso scrivendo di cose di cui ammette di non avere nessuna esperienza personale. Ma è proprio questo il segreto dei cantastorie: farti vivere vite che non sono la tua.
Ed ecco allora partire l’inconfondibile arpeggio di “Growin’ Up”, con quell’esplosione di ardore giovanile a trascolorare in una più pacificata consapevolezza del tempo, inframmezzata da una lunga digressione sull’epifania di Re Elvis nella vita di un bambino di sette anni. Springsteen scandisce nitidamente ogni sillaba, quasi a volerne assaporare tutto il peso. Alterna cantato e recitativo senza soluzione di continuità, dà libero sfogo alla sua vena di affabulatore sempre in bilico tra sorriso e riflessione.
Si parla molto di radici, in “Springsteen On Broadway”. Bruce siede al piano e “My Hometown” perde all’istante ogni ombra di retorica, per tratteggiare quel piccolo angolo di America che sembra a un milione di chilometri dalle luci di New York, separato dalla metropoli da un’ora di strada che è come un viaggio dalla Terra alla Luna.
Su una lenta e solenne “My Father's House” si staglia l’ombra del padre, eroe e nemico al tempo stesso, e la narrazione diventa autoanalisi in pubblico, esame di coscienza, confronto con i propri fantasmi. Al suo fianco, la figura materna si fa icona di un’instancabile positività, con la dedica di una struggente versione pianistica di “The Wish” (unica rarità in una scaletta sin troppo incentrata sui classici).
Essere figli, essere genitori. La fatica di riuscire a immedesimarsi gli uni nelle fatiche degli altri. Una sofferta riconciliazione da cui nasce il momento più intenso del disco, quando Springsteen asciuga le lacrime dagli occhi per intonare una commossa “Long Time Comin’”. E nella sua voce ogni respiro assume uno spessore quasi insostenibile: “If I had one wish in this God forsaken world, kid/ It’d be that your mistakes will be your own/ That your sins will be your own”.
Non c’è quell’inventiva nel riscrivere il vecchio repertorio che aveva contraddistinto i tour solisti di “The Ghost Of Tom Joad” e “Devils & Dust”. Ma nel mettersi a nudo in una maniera così intima, Springsteen riesce a conferire ai brani una nuova schiettezza, qualcosa in grado di arrivare direttamente all’essenza. È il cuore pulsante delle sue canzoni: “Thunder Road” è lo sguardo di un ragazzo immerso nel cielo stellato dell’estate mentre lascia la sua città, “The Promised Land” è il brivido di una strada che si apre davanti allo sguardo come una pagina bianca ancora tutta da scrivere. Più vere e palpitanti qui, di certo, che non nel rito collettivo dei grandi concerti.
I capitoli della biografia di Springsteen scorrono uno dopo l’altro come le carrellate di un film: l’avventura della E Street Band e l’amicizia indissolubile con Clarence Clemons (“Tenth Avenue Freeze-Out”), l’amore che diventa capacità di costruire insieme (“Tougher Than The Rest” e “Brilliant Disguise”, in duetto con Patti Scialfa). L’America e le sue contraddizioni, da una “Born In The U.S.A.” declamata alla maniera di Blind Willie Johnson fino ai ricami che si intrecciano intorno a “The Rising”. E poi una “Dancing In The Dark” che va a sfociare nel gospel scarnificato di “Land Of Hope And Dreams”, prima dell’inevitabile epilogo di “Born To Run”.
C’era un grande faggio rosso, nel cortile di casa Springsteen. Adesso tutto quello che ne resta è qualche radice lungo il bordo di un parcheggio. Le cose che abbiamo amato sembrano svanire inghiottite dal tempo. “Ma l’anima, l’anima è qualcosa di testardo. Non si dissipa così velocemente”. E così, alla fine del racconto, Springsteen prende in prestito le parole di una preghiera. La più semplice di tutte, il “Padre nostro”. Lui, il ragazzo del New Jersey cresciuto “circondato da Dio”, tra il campanile della chiesa e il convento delle suore, si trova a ripetere quelle parole biascicate mille volte nell’ora di catechismo o in un’aula di scuola. Ora, però, hanno un significato diverso: l’esperienza della vita ha dato loro carne e sangue. È lì dentro, sembra volerci dire, che si trova tutto il sugo della storia: quella “lunga e rumorosa preghiera” che è il nostro cammino di uomini.
(07/01/2019)