La band guidata dall'animo gentile di Orlando Weeks, muovendo da South London a Brighton, ha saputo innovare e innovarsi, dimostrando di saper maturare musicalmente con gli anni, in assoluta sincerità con sé e con il pubblico. Se in principio l'esordio Colour It In poteva fungere da ideale tributo a band come Strokes, Bloc Party e per certi versi ai Gang Of Four di “Entertainment”, con Wall Of Arms prima e con Given To The Wild poi, la costruzione della residenza Maccabees è da attribuire quasi completamente ai cinque giovani di Londra. Quasi, invero. Perché esiste un ispiratore, una presenza fondamentale per il gruppo e per Weeks in particolare: Richard Hawley da Sheffield, talvolta impalpabile, ma che a ben ascoltare disegna compiutamente i contorni delle anime liriche e melodiche della band.
South London, la scuola e la Bibbia
Nel 2003 i compagni Orlando Weeks e Robert Dylan Thomas trascorrono i pomeriggi guardando la tv e scrivendo canzoni. Nell'estate dello stesso anno Hugo White e Rupert Jarvis li raggiungono per formare i Maccabees, band nella quale trova posto anche il già chitarrista e fratello maggiore di Hugo, Felix White. Il curioso nome nasce da un riferimento religioso: i Maccabei, famiglia ebraica che guidò la ribellione contro Antioco IV nel II° secolo a.C.. "Eravamo in casa guardando dei libri e il primo che mi è capitato sotto mano era la Bibbia; sfogliandolo ho scovato i Maccabei e ho pensato che poteva essere un buon nome per una band", ha specificato Rupert Jarvis, bassista della band.
D'altronde i Maccabees trascorrono un'infanzia e un'adolescenza serena all'interno del Bourough Of Wandsworth di South London, tra nuotate nel Latchmere Leisure Centre e partite di football. Sono questi i tratti distintivi nelle liriche della prima parte di discografia della band che, accompagnata dal lato introverso e romantico del paroliere Weeks, esordisce con Colour It In.
Brighton, l'università e l'esordio
Al Concorde 2, il locale-trampolino per le nuove band dell'East Sussex e di Brighton, Orlando Weeks assiste a un concerto dei Franz Ferdinand e si convince che la performance degli scozzesi sia una delle più belle mai ascoltate in vita sua. È il 2004. Tre anni dopo sarà lui a cantare su quel palco, accompagnato dai fratelli Hugo e Felix White alle chitarre, Rupert Jarvis al basso e Robert Dylan Thomas alla batteria, chiudendo uno degli ultimi concerti del primo Uk tour della band.
"Lando" - così è apostrofato dalla band - si è trasferito a Brighton per studiare Arte e Illustrazioni Visive all'università; anche i restanti Maccabees lo seguono: chi per provare a imbastire qualcosa perlomeno simile allo studio e chi semplicemente per cambiare aria. Brighton diventa la nuova casa sul mare per la band, che sveste gli abiti cittadini per indossare quelli provinciali dei marinai del Sussex. Qui nascono i primi singoli, i rudimenti che costruiranno il fresco Colour It In che uscirà il 14 maggio 2007 per la Fiction Records, proprietà Polydor, sussidiaria Universal Music.
È il novembre 2005 quando viene rilasciato il primo singolo della band, “X-Ray”; il pezzo passa sulle radio, Xfm London Radio in particolare - stazione con la quale i Maccabees collaborano tuttora – ottenendo un flebile riscontro, probabilmente per una musicalità e per certe armonie vocali molto simili a un'altra band, quei Bloc Party che già in febbraio pubblicano l'album d'esordio “Silent Alarm”. La voce di Weeks è incerta se seguire le linee di Kele Okereke (Bloc Party) o quelle del Tom Smith (Editors) di “The Back Room”, cadendo così nell'anonimato; le chitarre, truccate con un filo di overdrive, e il basso suonano all'unisono melodie prese dai primi Iron Maiden, sorrette da un Dylan Thomas che alterna nervosamente rullante, gran cassa e timpano. Bandiera gialla quindi, a significare pericolo di balneazione in acque gonfie e torbide di produzioni similari.
Nell'aprile 2006 è “Latchmere” ad essere lanciato come secondo singolo, tributo adolescenziale al già citato Latchmere Centre della mai dimenticata Londra. Grazie anche all’aiuto di Steve Lamacq, conduttore per Bbc Radio, il singolo permette ai cinque di farsi conoscere nell'ambiente indipendente e di realizzare un video musicale trasmesso in rete e sulle emittenti televisive inglesi. Scanzonato ed esente da secondi fini, “Latchmere” anticipa nei contenuti musicali e lirici il lancio dell'album d'esordio. "Swim, swim, swim, swim, swimming/ Stay in your lanes/ Madames and monsieurs please return to your cubicles/ Latchmere's got a wave machine"; i mantra che si ripetono in maniera compulsiva precedono la felicità della band che, con coretti alla Weezer, ricorda le nuotate, questa volta in acque più tranquille; la batteria, marciando, permette alle chitarre d'inneggiare ritmicamente melodie semplici, sulle quali giocano le potenzialità vocali di Orlando.
Colour It In riceve immediati apprezzamenti da critica e pubblico per la spontaneità dei contenuti - la sincerità sarà da qui in avanti l'arma di seduzione utilizzata dai Maccabees - e dall'album vengono estratti due singoli in aggiunta ai precedenti: “First Love” e “About Your Dress”. Nel primo quadro le immagini presentano tinte chitarristiche strokesiane, incorniciate da un basso saldo e lineare e da una batteria carica di contraccolpi; continuano i divertenti vocalismi di Weeks che in questo caso s'improvvisa trovatore ironico di allitterazioni ("And are you cool/ Symmetrical/ Hypocritical/ Analytical/ So critical"), donando ancor più vivacità e colore a una pittura già vivida di per sé. “About Your Dress” mostra di nuovo le affinità canore con Okereke, differenziandosi da quest'ultimo per le linee poetiche, più romantiche e dirette nella concezione di Weeks: "Non so per quale ragione scriva di argomenti così legati alla vita di tutti giorni, agli amori vissuti e poi finiti: lo faccio perché mi viene così, senza una particolare ragione". Di fatto il singolo è un'ottima scelta commerciale per proseguire la linea tracciata da “First Love”, nonostante possieda una costruzione differente, non basata sulla tipica struttura intro-strofa-ritornello: Jarvis, al basso, apre le danze a favore di White e del suo giro di chitarra, protagonista indiscusso della pista da ballo, la quale accoglie comunque con favore la nitida batteria, ma defila le potenzialità globali della band.
La linea che guida tutto l'album è quella della naturalezza di un gruppo di bravi ragazzi che si diverte a fare quello che fa e non pensa con troppa ansia al futuro, al diventare grandi prima del tempo. La stessa “Toothpaste Kisses”, endtrack dell'album, è meravigliosamente inscenata in un video in cui i "baci al dentifricio" trionfano in una sequenza appassionata di uomini con donne, uomini con uomini e donne con donne, a testimoniare che l'unica cosa che conta davvero per i Maccabees sia l'amore romantico. Custodita con cura all'interno di un raffinato cofanetto, “Toothpaste Kisses” è una leggera ninna-nanna che culla i nostri sentimenti attraverso gli incroci di una morbida chitarra classica e di note lente e dilatate dell'elettrica, mentre le spazzole di Dylan Thomas cercano timidamente di dire la loro. Il singolo è anche una sorta di omaggio che Orlando porge a “Late Final Night”, il primo album solista di Richard Hawley, figura ideale nei modi e negli atteggiamenti armonici al cantare.
Il saluto di Rob e il concetto di arte a 360°
"Dear friend of mine has/ Broken his union
Broke from tradition/ Broken his vision of the future
Alone, Alone, Alone/ Not alone at all"
L'incipit di “No Kind Words” è un presagio. Descrive una vicenda che ha come protagonista un uomo che a sua volta, scansandosi dalle scene, tende a far brillare di luce propria l'abuso di sostanze, la difficoltà a pensare al futuro e la concretezza del rimanere soli: nel 2008 il batterista della band, Robert Dylan Thomas, entra in riabilitazione, per cercare di combattere i problemi di dipendenza. È sostituito da Sam Doyle, amico dei cinque in tempi non sospetti. "Il testo non ha comunque nulla a che vedere con l'uscita di Rob dalla band. Non ho idea se lo rivedremo; credo sia stata la scelta migliore per tutti, per la band e per Rob stesso", queste le parole che Weeks e Felix White utilizzano per commentare l'uscita di Dylan Thomas e in un certo qual modo riflettono la serietà d'intenti dell'intera band, giunta ormai al rilascio imminente del nuovo Lp, Wall Of Arms. “No Kind Words” svela anche nel suono l'identità dei futuri Maccabees: più foschi, con un basso presente, caratterizzante nel dettare i tempi e i ritmi che le chitarre armonizzano con accordi in minore, così da rendere la voce di Orlando ancora più cupa e misteriosa.
Wall Of Arms esce il 4 maggio 2009 per Fiction Records, esordendo al n. 13 delle classifiche Uk, lanciato dal singolo “Love You Better”, traccia che verrà spesso utilizzata come chiusura nei live set. Il singolo segna la linea lirica dell'intero album: l'amore romantico è presente, come sempre, ma qualcosa è cambiato dal precedente Colour It In; Orlando smaschera la timidezza scrivendo di un amore sincero che necessita di tempo, per crescere e per capire come affrontare i tratti oscuri della realtà che lo circonda e che lo costruisce. La strisciata iniziale di chitarra annuncia che i Maccabees sono tornati, farciti da una sezione fiati che sul finale, concertata con tutti gli strumenti e con la voce di Orlando, manda in memoria le diverse affinità targate Arcade Fire.
"Why would you kill it, kill it, kill it before it dies?" si chiede la band in One Hand Holding”, testimoniando la volontà di affrontare con serietà le questioni che contano, dall'amore alla professione, ormai diventata, per davvero, quella di fare musica. I cori vocali di Hugo e Felix s'incastrano sulle note basse di Jarvis, mentre le chitarre, che fraseggiano educatamente anche nel ritornello, non lasciano molti gradi di libertà all'immaginazione.
Wall Of Arms non si limita al ruolo di mero oggetto discografico, ma con l'aiuto delle ali produttive di Markus Draves (Bjork, Arcade Fire) si libra a concetto d'arte a 360°: l'introduzione della sezione fiati, ad esempio, avvicina per certi versi South London alla Montrèal di Butler e Chassagne - interessante la sessione che i Maccabees hanno eseguito insieme alla Dodworth Colliery Band - la copertina è studiata a tavolino per cercare di costruire primariamente un prodotto d'arte; gli Stamps, ossia i timbri impressi sulla pelle dei fan, sono segni ogni volta diversi, pensati e intagliati con lo scalpello dallo stesso Weeks.
Wall Of Arms è strumento di consapevolezza, artificio utile a materializzare la creatura Maccabees. Per certi verso il più indipendente della produzione della band inglese, si pone come album di svolta, che strizza l'occhio a certe cavalcate stile Arcade Fire – “Love You Better”, “One Hand Holding”, “Seventeen Hands” - ma con le chitarre dei fratelli White che incominciano a tessere trame che diventeranno sempre più riconoscibili in futuro e la voce di Orlando Weeks che corre spedita per la via della crescita artistica e della diversificazione, paragonabile solo a quella di Hayden Thorpe dei Wild Beasts.
La title track “Wall Of Arms” farebbe brillare gli occhi a qualunque cuore sensibile: documento di profonda delicatezza laica sulle tematiche di fede e di aiuto, "They are a wall of arms around me/ Oh... it is they who are my army/ Oh… it is they who are my army/ I have faith, oh... I have faith/ I have faith, oh... I have faith/ In those who put up with me", in cui il basso di Jarvis e la batteria di Dylan Thomas snocciolano ritmiche tropicali inaspettate; le entrate intervallate dei fiati staccano il biglietto aereo che, obliterato nella terra dei Buena Vista Social Club e di Compay Segundo in particolare, viene appoggiato all'arrivo su un tavolino della vecchia Montrèal, nella galoppata che chiude la traccia.
L'album è trascinato anche dalla rullante “Can You Give It”, dove le chitarre e il basso esalano gli ultimi afflati alla Casablancas e soci, assemblando suoni che riportano gli amanti di Walt Disney direttamente alle melodie di un torneo di tiro con l'arco, organizzato in una foresta di Nottingham e vinto da una volpe travestita da cicogna: un tributo, forse inconscio, alla figura di George Bruns, compositore per la Disney Studios, amante del Dixieland, nominato per le sue composizioni quattro volte agli Academy.
A fine 2010 Wall Of Arms tocca i maggiori festival europei (Reading & Leeds, BBK Bilbao, Pinkpop, Latitude) e permette alla band di accompagnare in tour gli Editors di “In This Light And On This Evening”, entusiasmando la stampa britannica, che ne esalta le qualità durante il celeberrimo concerto alla Brixton Academy di Londra.
Ritorno a casa
Accade che poi, dopo aver attraversato l'Europa per quaranta tappe, si abbia voglia di tornare a casa. Certo è che se il tuo nome ora è The Maccabees, allora la tua casa diventa lo studio di registrazione e tu sei felice di tornarci, per comporre, perché la tua età e il tuo mestiere ti consentono di liberarti dai vincoli che anche solo la ripetizione di una setlist ti impone.
Succede quindi che quella band di South London, con base a Brighton, composta da ragazzi medio-borghesi, studenti di università, si trovi ad appellare casa il suddetto studio di registrazione e che dall'interno estragga in un anno e mezzo di lavoro, cioè parte del 2010 e tutto il 2011, Given To The Wild, il terzo capitolo della carriera.
E si tratta di un'opera magistralmente curata, nel concetto e nel dettaglio, dalla band, in primis e dalla schiera di produttori/ingegneri ingaggiati, in secundis: Tim Goldsworthy (Massive Attack, Lcd Soundsystem, Cut Copy) e Bruno Ellingham (Moby, Goldfrapp) attaccano la produzione di corrente elettronica; Jag Jago e Sean Julliard (Vaccines, Friendly Fires) la alternano in chiave indie-rock e Cenzo Townshend (Florence and the Machine, Snow Patrol, Bloc Party, Editors) missa l'intero complesso energetico.
Il risultato è un album che miscela sapientemente le tastiere con le chitarre, con prove superlative di Jarvis al basso e di Doyle alla batteria. Si percepisce come il lavoro sia una sorta di continuum con Wall Of Arms, dove già era percepibile l'atmosfera riflessiva che, con Given To The Wild, è amplificata da tappeti di tastiera e da fiati dagli atteggiamenti meno spensierati.
Given to The Wild esce il 9 gennaio 2012 per la Fiction Records, esordendo al 4° posto delle classifiche Uk e suggellando l'ingresso di un nuovo membro turnista nella band, Will White alle tastiere, fratello di Hugo e Felix.
Il taglio che la band concede alla nuova capigliatura Maccabees è svelato, in parte, durante l'uscita al Wedgewood Rooms di Portsmouth, nell'agosto 2011, in cui si percepisce il colore più cupo e intimista che i cinque propongono in Given To The Wild. Il singolo “Pelican”, a novembre 2011, becca con insistenza il portone dei media inglesi e di Nme, che si concede offrendo la copertina del magazine un mese più tardi. Il pezzo n.8 dell'album è un tributo alla natura, ma non al naturale, all'inizio e alla fine delle cose, all'eterna battaglia tra le contraddizioni: la voce di Orlando, ormai ben definibile, definita, sebbene non definitiva, contrappunta melodiosamente le chitarre spigolose dei fratelli White, per abbracciarle sul finire, quando il ritmo si fa rapido, ancora più frenetico e selvatico.
Given To The Wild è brillante a suo modo: lo testimonia il luccicare di “Glimmer”, specchio d'acqua in cui è possibile ammirare la voce setosa di Weeks e gli arpeggi a due dita dei fratelli White, increspati nel finale da schegge taglienti di synth; e nel secondo singolo, “Fell To Follow”, le chitarre a cascata sono prova di quel bagliore atipico, un eterno inseguire, reso sempre più intimista dalle liriche di Weeks e impolverato dai tappeti di tastiera di Will White.
In “Go” la band manifesta la "tensione verso", la dinamicità della crescita in divenire, che fa sperare in positivo per le prossime produzioni e che annulla anche la minima idea di una maturazione completamente raggiunta; Doyle alterna ritmi downtempo elettronici alla ricerca di equilibrio, raggiunto quando ci si lascia cadere, fiduciosi, nelle onde sincere del riff di Felix White, poco oltre le parole cantate da Orlando: "It was not enough/ It's not enough/ And it never was".
Pur essendo un album pienamente Maccabees, Given To The Wild è un segno di riconoscimento alla scuola pop-rock britannica d'annata: Queen, Coldplay, Radiohead. Le chiusure corali presenti in quasi tutte le tracce lasciano immaginare gli abbracci virtuali che pubblico e band hanno nei concerti, come ben ci insegna Chris Martin e perché certe tastiere synth, in “Heave” ad esempio, non possono che rimandare alla "Regina d'Inghilterra"; e “Slowly One”, tristemente, comunica che l'animo romantico di Weeks s'è incupito, a ritmo dei rintocchi raffinati della batteria di Doyle, e scorre sui flussi liquidi della chitarra di Felix White in versione Johnny Greenwood: "Every new encounter that's not her/ leaves you cold/ Some day you're going to wake up/ and think you went a day without", poco prima che esploda un forte mal di testa, trasmesso dalla virulenta chitarra di Hugo White, con la partecipazione della sezione fiati e del fratello Will.
Non solo il sentimento si oscura, ma diventa addirittura criptico, in “Unknown”, in cui una meravigliosa Catherine Pockson del duo Alpines chiude la traccia più inquieta dell'album, ricordando a Orlando che "Just while love remembers", là dove è stata costruita una chiesa gotica importante, con fondamenta di chitarre new wave e pilastri Editors, impreziosita da guglie ritmiche di percussioni africane.
La band porta sulle spalle un tour che attraversa il globo e che, partendo da gennaio 2012, tocca Uk, Europa, Australia, Giappone, Stati Uniti, Canada e Messico, accompagnando in tournée Florence and the Machine e quella gallina dalle uova d'oro chiamata Black Keys; fronteggia - ancora una volta - i maggiori festival internazionali aggiungendo ai precedenti lo spagnolo Benicassim, l'olandese Lowlands e l'irlandese Picnic; ottiene il disco d'oro in Uk nel 2012 e Given To The Wild viene nominato come disco dell'anno al Mercury Prize 2012, vincendolo invece agli NME Awards 2013.
Una nuova ipotesi di genere
La scelta è stata quella di registrare e produrre un disco finalmente soli, armati unicamente delle proprie idee. L'opportunità è giunta quando i "South Londiners" si sono ritrovati tutti e cinque in Elephant & Castle, a cavallo tra zona 1 e zona 2 di Londra e lì hanno deciso di vivere e ricavare il proprio studio di registrazione, in un quartiere che negli ultimi tempi sta gustando finanziamenti da 1.5 miliardi di Sterline, non proprio noccioline per una ristrutturazione edilizia e sociale.
Come i quartieri evolvono sotto la naturale spinta delle persone che li popolano, anche i The Maccabees giungono alla quarta fase della carriera che a distanza di tre anni da Given To The Wild li vede protagonisti con Marks To Prove It, atteso ormai da una schiera di fan nazionali e non.
Marks To Prove It parte con "Marks To Prove It", un singolo diretto, schietto, che guarda all'indietro - addirittura agli esordi di Colour It In - e dove la questione più interessante non è proprio la tessitura della traccia, quanto più l'oggettiva padronanza dei mezzi che la band inglese possiede, una sorta di autopoiesi musicale, un genere incarnato e distinguibile da tutti gli altri.
Sfilandosi da qualche rattoppo ("Something Like Happiness", "WWI Portraits"), testimone di quelle difficoltà di cui sopra, si possono però incrociare pezzi di alta classe: "Kamakura" è tra questi, con le sognanti battute di chitarre delicatamente rimarcate dall'ormai inconfondibile voce di Weeks e "Spit It Out" - onestamente il pezzo meglio riuscito e completo dell'album - un trait d'union dei tre lavori passati e la più intrigante via per il futuro, un crescendo continuo tra Elton John, Queen e grandi cori da stadio inglese.
L'inedito pianoforte non si esaurisce con "Spit It Out", ma è tappeto in tutto il nuovo lavoro, un po' come lo erano stati i fiati in Wall Of Arms; lo ascoltiamo allora in "Silence", ballad cantata da Hugo, nella gommosa "Slow Sun" e nell'umida "Pioneering Systems" che insieme a "Ribbon Road", ma specialmente con "Dawn Chorus" ci permette di sentire quanto i The Maccabees abbiano respirato l'arte di Richard Hawley: l'ex Pulp è la luce che illumina il pezzo più toccante e profondo di Marks To Prove It, una delicata e tintinnante ballata pop di gusto e raffinatezza d'antan, accompagnata da una sezione fiati da brividi.
Marks To Prove It è un disco apprezzabile dopo diversi ascolti, in costante crescita, in cui si scoprono piccoli particolari che creano atmosfere irresistibili, marcando la differenza tra dozzinale quantità e raffinata qualità di un nuovo fenomeno identitario che potremmo chiamare semplicemente fair-rock. I The Maccabees sembrano quindi alla ricerca di una nuova e temporaneamente definitiva identità in cui potere esprimere pienamente se stessi; la forte sensazione è che le pressioni esterne non giovino alla serenità artistica dei bravi ragazzi, invece impegnati a dover continuamente dimostrare di essere qualcosa in più di umani onesti e affidabili.
Young Colossus: il side-project di Orlando Weeks
"Già due anni fa ho cominciato a buttar giù pezzi
che in un certo senso non c'entravano coi Maccabees
a dire il vero non c'entravano con niente"
(Orlando Weeks)
Nel maggio 2012 Orlando Weeks ufficializza la nascita di Young Colossus, un side-project che vede la collaborazione di Nic Nell alla produzione e di Alessi Laurent-Marke, in arte Alessi's Ark, giovane singer-songwriter di Hammersmith, Londra. Il progetto è lanciato da un Ep dal titolo omonimo, composto da 6 tracce e da uno storybook di 24 pagine illustrate dalla mano di Robert Hunter.
Young Colossus è in effetti la dimostrazione di ciò che Weeks intende con il termine Arte, ovvero quella concezione che abbraccia la multidisciplinarietà, non limitandosi a una presa di posizione netta e ai giudizi sommari su ciò che ben la rappresenti o mal la identifichi.
Il disco ha suoni mediterranei, quasi ellenici, di chitarra classica (“Franky”) intervallati da batteria e pad elettronici, conditi dalla commistione di voci di Weeks e di Alessi's Ark, debitrice della Kate Bush di “Lionheart”, della Bjork di “Volta” e più recentemente della profonda Natasha Kahn/Bat For Lashes. “Sleeper” si muove su territori musicali d'oriente e, mentre il timbro di Alessi's non aiuta la negazione del confronto tra lei e Miss Kahn, le capacità artistiche di Weeks sorprendono piacevolmente, in un disco che lo vede impegnato più come compositore/musicista che come cantante. “Xhocka” dimostra le velleità etniche di Orlando, che in fase di ricerca e sperimentazione sfoglia le pagine dell'atlante musicale dell'India e del Sudafrica, estrapolando una composizione raffinata e caparbia, che illumina gli occhi con una foresta fantastica, molto simile a quelle ammirate sul pianeta Pandora di James Cameron.
Proposto in edizione limitata di 1500 copie (Ep+Storybook) da Chrysalis Music Ltd., Young Colossus potrebbe rivelarsi come laboratorio artistico d'avanguardia per le future concezioni artistiche dei Maccabees.
L'avventura solista di Orlando Weeks dopo lo sciogliemento della band
La vita di Orlando Weeks è cambiata molto negli ultimi anni, per farla semplice: è diventato papà; prima di dedicarsi a questo “A Quickening” ha finanche scritto un libro per bimbi. Questo cambiamento, la nuova quotidianità dell’ex-Maccabees si riflettono cristallinamente nel suo nuovo modo di comporre le canzoni.
Tanta è la calma, delicate le evoluzioni e profonde le riflessioni che troviamo in questi undici brani, che piuttosto che i Maccabees, viene da pensare ai fragili Antlers di “Familiar”, alle liriche sott’acqua di Robert Wyatt. Una grande varietà di arrangiamenti, invero piuttosto statici, non alberga tra le caratteristiche del disco, che rimane costantemente ancorato a strutture molto lente fatte di eleganti note di pianoforte, leggeri interventi elettronici (il finale glitch di “Safe In Sound”, l’heartbeat di “Takes A Village”), spruzzatine di fiati che fanno capolino nei brani più vivaci (“St. Thomas”, “All The Things”) e in quelli più brumosi (“None Too Tough”, “Milk Breath”), drumming preciso, a tratti marziale, ma comunque spazzolato, soffice.
“A Quickening” è un disco molto uniforme, composto di suoni discreti, ma mai banali, fini a risaltare i pensieri sussurrati e commossi del cantautore e giovane papà. Uniformi sono però anche la qualità e la raffinatezza, che puntano decisamente verso l’alto.
In una breve rassegna di must listen vanno certamente segnalata la delicatissima opener “Milk Breath”, tutta delicata al figliolo, immersa in una fragile bolla d’affetto e alito di latte, i magnifici paesaggi di “Takes A Village”, la vibrante e jazzata “All The Things”, gli svolazzi onirici della cantante lirica che chiudono a “Dream” e dunque il disco. Tutti brani che un orecchio disattento potrebbe tendere a considerare troppo simili tra loro, che invece vivono e splendono grazie a dettagli e finezze che premiano gli ascoltatori più attenti e disposti ad ascoltare queste confessioni a luce fioca.
MACCABEES | ||
Colour It In (Fiction, 2007) | 7 | |
Wall Of Arms (Fiction, 2009) | 7 | |
Given To The Wild (Fiction, 2012) | 8 | |
Marks To Prove It (Fiction, 2015) | 7 | |
YOUNG COLOSSUS | ||
Young Colossus (Chrysalis, 2012) | 6,5 | |
Orlando Weeks | ||
A Quickening (Pias, 2020) | 7 |
Toothpaste Kisses | |
First Love | |
Precious Time | |
No Kind Words | |
Can You Give It | |
Ayla | |
Feel To Follow | |
Pelican | |
Marks To Prove It | |
Something Like Happiness |
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