La scelta è stata quella di registrare e produrre un disco finalmente soli, armati unicamente delle proprie idee. L'opportunità è giunta quando i "South Londiners" si sono ritrovati tutti e cinque in Elephant & Castle, a cavallo tra zona 1 e zona 2 di Londra, e lì hanno deciso di vivere e ricavare il proprio studio di registrazione, in un quartiere che negli ultimi tempi sta gustando finanziamenti da 1.5 miliardi di sterline, non proprio noccioline per una ristrutturazione edilizia e sociale.
Come i quartieri evolvono sotto la naturale spinta delle persone che li popolano, anche i Maccabees giungono alla quarta fase della carriera che a distanza di tre anni da "Given To The Wild" li vede protagonisti con "Marks To Prove It", atteso ormai da una schiera di fan nazionali e non.
La grande capacità attrattiva della band inglese arrivò nel 2012 con il mirabolante successo di critica e pubblico per "Given To The Wild", album che aprii le porte del "maindiestream" e che segnò una svolta in termini di seguito: i fan dei Maccabees, da allora in poi, non saranno più solo coetanei della band, talvolta diventeranno più giovani, qualche volta più anziani, aprendo un delta di ascolti estremamente variabile e critico.
Succede allora che la pressione si faccia sentire e che i cinque - capitanati da Orlando Weeks alla voce e dall'istrionico chitarrista Hugo Felix alla chitarre - dichiarino di alcune, gravi difficoltà avute nell'inquadrare il nuovo lavoro e dello sconforto che talvolta li colpiva mentre lavorano in studio.
"Marks To Prove It" parte con "Marks To Prove It", un singolo diretto, schietto, che guarda all'indietro - addirittura agli esordi di "Colour It In" - e dove la questione più interessante non è proprio la tessitura della traccia, quanto l'oggettiva padronanza dei mezzi che la band inglese possiede, una sorta di autopoiesi musicale, un genere incarnato e distinguibile da tutti gli altri.
Sfilandosi da qualche rattoppo ("Something Like Happiness", "WWI Portraits"), testimone di quelle difficoltà di cui sopra, si possono però incrociare pezzi di alta classe: "Kamakura" è tra questi, con le sognanti battute di chitarre delicatamente rimarcate dall'ormai inconfondibile voce di Weeks, e "Spit It Out" - onestamente il pezzo meglio riuscito e completo dell'album - un trait d'union dei tre lavori passati e la più intrigante via per il futuro, un crescendo continuo tra Elton John, Queen e grandi cori da stadio inglese.
L'inedito pianoforte non si esaurisce con "Spit It Out", ma è tappeto in tutto il nuovo lavoro, un po' come lo erano stati i fiati in "Wall Of Arms"; lo ascoltiamo allora in "Silence", ballad cantata da Hugo, nella gommosa "Slow Sun" e nell'umida "Pioneering Systems" che insieme a "Ribbon Road", ma specialmente con "Dawn Chorus" ci permette di sentire quanto i Maccabees abbiano respirato l'arte di Richard Hawley: l'ex-Pulp è la luce che illumina il pezzo più toccante e profondo di "Marks To Prove It", una delicata e tintinnante ballata pop di gusto e raffinatezza d'antan, accompagnata da una sezione fiati da brividi.
"Marks To Prove It" è un disco apprezzabile dopo diversi ascolti, in costante crescita, in cui si scoprono piccoli particolari che creano atmosfere irresistibili, marcando la differenza tra dozzinale quantità e raffinata qualità di un nuovo fenomeno identitario che potremmo chiamare semplicemente fair-rock.
30/07/2015