C'era da aspettarselo, in fondo. La notizia (a prescindere dalle classifiche inglesi e dalle copertine di Nme, pur conquistate senza il minimo sforzo) è che i Maccabees hanno fatto il grande passo, quello decisivo. Un lavoro come "Given To The Wild" parla chiaro: la band che troviamo nei solchi di questo album si è ormai consegnata all'abbraccio di una maturazione compiuta. Il quintetto londinese aveva in realtà già saputo mettere sul banco una pletora di argomenti più che persuasivi in occasione dell'album di debutto "Colour It In" e soprattutto del successivo "Wall Of Arms", dischi germogliati all'ombra di rapinose infatuazioni wave (Teardrop Explodes, primi Xtc, The Sound e dintorni) ma capaci tuttavia di imporre la superiore ispirazione e la sostanza stilistica calibrata al millimetro di un giovane gruppo visibilmente destinato a un grande futuro. Futuro che giunge adesso a brillare e specchiarsi glorioso sulle superfici luminescenti di "Given To The Wild".
Il disco (scritto e registrato con perizia artigiana d'altri tempi in luoghi e momenti diversi, da Londra al Suffolk) vanta la produzione di nomi di spessore indiscusso come Tim Goldsworthy della Dfa e Bruno Ellingham e si impone con fermezza sin dai primissimi ascolti per l'equilibrio delle sue ampie strutture compositive, per lo spazio e i volumi che si articolano respirando imperiosi tra suono e suono, per la fulminante perfezione di molte delle melodie, a cominciare dal movimento complesso e sinuoso del bellissimo singolo "Pelican", che vale quasi una carriera.
Al cospetto della limpida eleganza di brani come "Child" o "Ayla", nutriti di visioni sospese e pura vertigine, torna in mente il precedente luminoso di "Total Life Forever" dei Foals: simile l'allargamento di prospettiva che ha portato i Maccabees ad aprire con coraggio gli occhi sul mondo e sul pulsare delle proprie vite in esso, simile l'espansione che il gesto musicale ne ha guadagnato (l'inarcatura che schiude "Feel To Follow" parla da sé).
"Given To The Wild" è un disco di iperboli, che chiama spazi ampi sin dal titolo e che quegli spazi sa disegnare con duttilissimo tratto nel flusso di una musica felicemente onirica e rimodellabile a piacimento. Sebbene alcune soluzioni negli arrangiamenti (soprattutto il taglio quasi orchestrale, con fiati in primo piano, di numerosi passaggi, come "Child" o "Go", avvolta in fasciature elettroniche) possano riportare ai medi Arcade Fire (non si può del resto dimenticare che la band ha collaborato in passato con Markus Draves), i Maccabees, soprattutto nei crescendo elettrici di "Forever I've Known" o "Went Away", ribadiscono la forza di una voce originale e pienamente distinguibile, conquistata nel tempo con fatica e, quel che più importa, fedele solo a se stessa. Una fedeltà che porta la band in prossimità delle creazioni più ispirate di Elbow e Wild Beasts e che le permette di sfiorare esiti di raffinatissimo paesaggismo metafisico, degni di una Kate Bush ("Unknown"), riferimento esplicitamente richiamato nelle interviste, piuttosto che di un Mark Hollis ("Slowly One").
In "Grew Up At Midnight" la voce eterea e sensuosa, ancorché incisiva, di Orlando Weeks suggella così un piccolo diamante del pop d'arte contemporaneo, esaltandone la luce prismatica in una miriade di schegge impazzite e riflessi. Un disco con l'oro in bocca. Commenta il disco sul forum
14/01/2012