Non è facile essere un classico contemporaneo. Ma cosa sarà mai un classico contemporaneo? Per una band, certamente, una simile condizione comporta soprattutto l'agire e il continuare a pubblicare dischi nella consapevolezza che il proprio nome, in qualche modo, si sia già garantito una sopravvivenza più o meno permanente, più o meno estesa, all'interno della storia della musica (o di una delle sue innumerevoli storie). Gli Elbow, con il precedente pluridecorato "The Seldom Seen Kid", hanno effettivamente ottenuto, al culmine di una carriera coerente che mai ha abbassato la guardia, un riconoscimento globale e unanime, tanto di critica quanto soprattutto di pubblico, che ha consentito loro di incidersi nell'immaginario collettivo quali raffinatissimi, dotti e geniali artefici della musica inglese contemporanea. E quando si parla di musica inglese contemporanea, si parla anche di una biforcazione. Uno spartiacque, a suo modo storico, all'interno di quella che è stata, per lo meno a grandi linee, l'evoluzione più recente del linguaggio pop-rock in terra d'Albione. Lo spartiacque, precisamente, che i Radiohead hanno aperto tra il paradigma, da loro stessi fissato, di "Ok Computer" e la sua successiva scomposizione in chiave astratta-sperimentale operata da "Kid A" (e, con esso, da tutto quello che è venuto subito dopo), segnando uno scisma irreversibile da cui proprio band come gli Elbow hanno poi finito col prendere le mosse, tentando un ritorno alla tradizione che mantenesse però aperte le ferite e i segni di quello che era accaduto "dopo" di essa.
Il nuovo "Build A Rocket Boys!" conferma, stilisticamente parlando, quanto già si era in larga parte osservato a proposito del quintetto manchesteriano. Costruito e intagliato dalla band con somma pazienza, lontano da tutto e tutti, ma soprattutto da se stessa, nella contemplazione solitaria e ventosa dell'isola di Mull (nelle Ebridi Interne), l'album evidenzia come gli Elbow attuali altro non siano, in fondo, che gli ultimi e forse più credibili eredi di una genia di grandi maestri britannici di illusionismo onirico (e questi maestri, per non sbagliarsi, sono fondamentalmente tre: Brian Eno, David Sylvian e Robert Wyatt). Nella fibra stratificata del gruppo si ritrovano anche tracce sparse di Blue Nile, Talk Talk, di certo Peter Gabriel, oltre a un diffuso spirito radioheadiano che la band ha saputo far suo nei tempi e modi di cui prima si diceva.
Tornando però al nuovo album, non si può evitare di intenderlo, dopo ripetuti ascolti, come un parziale, ma netto, passo indietro. Il disco inizia puntando la propria traiettoria verso il cielo con il lungo idillio introduttivo, a tratti quasi orchestrale, di "The Birds" (da notare l'ormai rodatissima abilità del gruppo nel coniugare componenti classiche e pigmenti digitali in un suono dai tratti liquidi e spaesanti). Eppure, dopo una fiammata iniziale di tale acutezza poetica (che fa il paio con la finale "Dear Friends", tra i risultati più equilibrati del lavoro, un tuffo nelle acque limpide della memoria) il razzo fatica a decollare. Rimane a terra. Si spegne a poco a poco.
In episodi come "Jesus Is A Rockdale Girl", "The Night Will Always Win", "The River" o "Lippy Kids" si avverte come una silenziosa dispersione di energie espressive, che il gruppo avrebbe potuto mettere a frutto con una concretezza più spiccata. Tanto colorismo accennato, molta atmosfera impressionisticamente suggerita e uno studio quasi ossessivo sulla luce e sullo spazio dei suoni, che tuttavia faticano a varcare la linea esile del bozzetto ineffabile.
"Build A Rocket Boys!" finisce col tramutarsi in una macchina trasparente di tensioni e attese non sempre ripagate. Rimane la sostanza e la complessità "naturale" di episodi come "High Ideals", "Open Arms" o "With Love", nei quali la band sa imporre tutta l'autorevolezza della propria firma, attraverso una cifra concettuale che mai (o quai mai) sfiora l'ovvio nel modo in cui intreccia melodie vocali (decisive nell'economia della propria scrittura) o pensa lo svolgimento compositivo di un tema o, ancora, articola la struttura architettonica di un arrangiamento.
Fatta propria la lezione calviniana sull'assenza di peso, Guy Gurvey e la sua ciurma di fidati sognatori plasmano l'etere di una musica praticamente invisibile, presa nel furore alchimistico di una sintesi e ricerca del "quinto elemento" che però questa volta sfugge allo sguardo, dopo aver mostrato una parte così ampia e spettacolare di sé nella pittura metafisica di "The Seldom Seen Kid".
Per ora non resta dunque che accontentarsi di un'uscita nel complesso apprezzabile, per quanto non troppo incisiva, cui spettava il compito improbo di fornire degna continuazione a un piccolo miracolo. L'incanto, certamente meno intenso, non smette tuttavia (anzi: non può smettere) di ammaliare.
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12/03/2011