Strana storia, quella degli Snow Patrol. La band formatasi in Scozia (sebbene molti componenti provengano dall'Irlanda del Nord), negli anni Novanta viveva all'ombra di colleghi come i Belle And Sebastian ai margini della scena indie, con un'etichetta - la Jeepster - che mai ha creduto veramente nelle sue potenzialità. Firmato un contratto con una major, sono arrivati singoli e album di successo, un premio Ivor Novello e più di recente anche l'opportunità di accompagnare gli U2 in tournée.
Sempre in equilibrio tra riff spumeggianti e momenti più riflessivi, Gary Lightbody e soci si sono attirati anche una discreta dose di antipatie - i critici con la puzza sotto il naso li considerano la "versione indie-rock di Phil Collins", mentre Nicky Wire dei Manic Street Preachers pochi anni fa denunciò la scarsa originalità della loro proposta. Troppo safe, per i suoi gusti. "D'altronde Terry Wogan è un loro fan", disse, con il chiaro intento di denigrare tanto loro quanto il veterano presentatore radiofonico. Ma a quanto pare non vedremo mai il buon Gary perdere le staffe, e in quell'occasione si limitò a far notare che la loro musica può sembrare noiosa solo se ascoltata superficialmente. Poi si è messa di traverso anche una singolare inchiesta di Travelodge, che ha stabilito che gli Snow Patrol (al terzo posto, sul podio insieme ai Coldplay e a Michael Bublé) sarebbero i "most sleep-inducing artists" secondo i clienti della catena internazionale di alberghi...
Dopo il grande successo di "Run" e di "Chasing Cars" non è stato facile scegliere con leggerezza quale nuova strada intraprendere. Che fare? Si può cambiare la squadra che vince? E se poi il rischio è quello di perdere i tanti fan conquistati grazie alla serie "Grey's Anatomy"? Le pressioni sono state parecchie, e il writer's block di Lightbody ha reso per qualche mese il lavoro molto più complicato del previsto. Gli Snow Patrol avevano già inserito qualche elemento di novità nel disco precedente e soprattutto nel singolo di lancio della doppia antologia "Up To Now", e stavolta sembrano abbracciare con più convinzione, in alcuni episodi chiave di "Fallen Empires", sonorità elettroniche.
Ma la loro non è una vera e propria svolta - i fan delle loro ballads malinconiche e dei loro inni da stadio non si allarmino: non siamo di fronte ad un nuovo "Achtung Baby", come certa stampa suggerisce, e men che meno davanti al "99.9 °F" del 2011. E già, perché il loro alternative rock edulcorato e le liriche emozionali scritte da Lightbody sono ancora un marchio di fabbrica, e il risultato è semmai molto più accostabile alle atmosfere del disco "Whatever You Say, Say Nothing" dei Deacon Blue di Ricky Ross, prodotto da Steve Osbourne e Paul Oakenfield (e del singolo successivo, "I Was Right And You Were Wrong"). Elegante, senza esperimenti stravaganti, con un synth-pop che è solo il vestito nuovo adattato a un songwriting familiare e ormai ben collaudato.
Accantonato il poco accattivante titolo "Where We Make Our Home", "Fallen Empires" è un disco che vive di ricordi d'infanzia, di rimpianti, di microcosmi, di sentimenti e di desideri (compreso quello della paternità che emerge nella toccante "Life-ning"), fatto di poesia schietta e senza pose, che non teme di sconfinare pur occasionalmente nel melenso. Il produttore è ancora una volta Jacknife Lee, che di recente ha lavorato con i Cars, i Drums, gli R.E.M., i Wombats e il supergruppo alternative-country Tired Pony (che vede coinvolto, insieme a Peter Buck del gruppo di Athens, proprio il cantante degli Snow Patrol).
La partenza è vigorosa: "I'll Never Let Go" e "Called Out In The Dark" (singolo corredato da un ironico videoclip), con l'ospitata di Troy Van Leeuwen dei Queens Of The Stone Age, ci conducono subito nella nuova direzione intrapresa e il risultato convince. Interessante anche "The Weight Of Love", con un ritornello che fa sposare gli Editors con un coro gospel (c'è il losangelino Inner City Mass Choir a dare alla canzone ancora più forza e pathos). Il secondo singolo "This Isn't Everything You Are" ci riporta subito a casa e ci dimostra che la band, tra chitarre robuste, un canto implorante e i crescendo orchestrali, sa ancora comporre ballate rock di forte impatto.
Non tutte le canzoni sono contraddistinte dal nuovo, fresco approccio: lo dimostrano la delicata "The Garden Rules", sull'amore mai dichiarato per un'amica d'infanzia, "New York" e "The President". Michael Stipe ha fornito qualche spunto per i testi, mentre la cantautrice Lissie si occupa del controcanto vestendo i consoni panni della Lorraine McIntosh della situazione. Dopo l'impetuosa title-track arriva uno strano e ridondante interludio quasi sigurrossiano, intitolato "Berlin".
"In The End" è in linea con alcuni dei più recenti brani degli U2, ma i sottili tocchi elettronici non sembrano mescolarsi bene nel contesto, e il risultato finale è stranamente ampolloso. Meglio la fascinosa "Those Distant Bells", che si colloca tra il miglior David Gray e la loro hit "Set The Fire To The Third Bar" incisa insieme a Martha Wainwright. Poi c'è "The Symphony", bella e strana con una strofa alla OMD che sfocia poco dopo in un oceano di chitarre e cori antemici.
I ragazzi se la sono cavata anche questa volta, anche se il nuovo disco risulta sempre troppo in bilico tra voglia di novità e la necessità di aggrapparsi alle formule affinché i brani suonino sempre e comunque riconoscibili. Tutto questo rende il lavoro poco spontaneo, transitorio, a tratti pure incoerente. Un po' come lo era il predecessore "A Hundred Million Suns".
Nuovi e classici, energici e letargici, gli Snow Patrol sembrano non voler scontentare nessuno, ma non sempre gli accostamenti tra uno stile e l'altro riescono felicemente. Magari una scaletta alleggerita di due o tre pezzi funzionerebbe meglio. Forse. Non risulta difficile, tuttavia, immaginare che anche stavolta troveremo (con buona pace di Nicky Wire...) queste canzoni nelle radio e nella serie televisive di turno. E diversi ritornelli aspettano di essere cantati a squarciagola durante i concerti.
27/11/2011