Da sempre culla dei talenti più sghembi e felicemente squinternati d'Inghilterra (dici Julian Cope e hai detto tutto, ma anche, più di recente, Clinic, Gomez o i sottovalutassimi Coral che andrebbero odiati, e quindi amati, per la tenacia con cui si ostinano a negare quel talento che hanno lasciato intravedere solo a sprazzi agli inizi della loro carriera), Liverpool è anche la sede dell'Institute Of Performing Arts, fondato dal baronetto McCartney, da cui provengono questi tre ragazzi immaginari (di sicuro anche allegri, ma molto poco morti) che si sono ritagliati un seguito consistente in terra d'Albione con la sigla Wombats, tanto da sbarcare con un certo successo anche nel resto d'Europa (un loro tour italiano, dopo le date di presentazione di qualche tempo fa, è previsto per la fine di quest'inverno).
Parte l'iniziale "Tales Of Girls, Boys And Marsupials", con i suoi battimani e intrecci vocali doo-wop ai limiti dell'alpinistico (tanto che viene quasi voglia di buttare lì un "Galileo" o un "Mama mia") e inizia subito a propagarsi un preoccupante sentore di Futureheads mal digeriti che tornano su a ogni pie' sospinto. L'impressione dell'ennesimo gruppo rimasto fatalmente incastrato tra Gang Of Four, Pil, Fall, Scritti Politti e Talking Heads viene confermata dalla successiva "Kill The Director", con la solita linea tagliuzzata di chitarre biforcute e una sezione ritmica soffocata dal singhiozzo, kit di trucchi da mago dilettante, che hanno fatto forse la fortuna dei Franz Ferdinand, al massimo dei Bloc Party, ma che hanno anche sancito la rovina di gran parte dei gruppi pop inglesi arrivati qualche minuto più tardi. Eppure quel flebile coretto di sirene pavementiane che si ode chiamare dallo sfondo sembra quasi additare un'ipotetica via di fuga dalla solita solfa londinese rimasticata (e francamente irrancidita) che forse vale la pena seguire. E infatti, "Moving To New York" si tende come un elastico sulle sue chitarre fin troppo apertamente libertine per lanciarsi poi lontano dai soliti bazzichi metamusicali, in un ritornello instabile degno dei Cure più tonici e scattanti.
Il disco prosegue con numeri (dall'esito alterno) di bubblegum power-pop impiastricciato da pestifere bombolette punk, pieno di tic nervosi e movenze lunatiche e scomposte, a tratti francamente irritanti (e quindi sotto sotto piacevoli), in equilibrio precario tra Weezer e Ramones. Il gruppo è talmente superficiale che viene quasi voglia di fidarsi e prenderlo sul serio, e la sua logorroica incompetenza finisce spesso col rivelarsi il suo punto di forza decisivo, portandolo a sbattere e inciampare quasi per caso contro soluzioni strumentali o travate armoniche del tutto equivoche, ma anche deliziosamente stranianti - quell'improbabile e goffa salmodia che si arrampica sullo specchio di se stessa in "Party In A Forest (Where's Laura?)", ad esempio, o le fanfare impettite e spernacchianti di "Here Comes The Anxiety" e "Little Miss Pipedream". Tutta roba a cui un gruppo tronfio e sistematicamente allergico ad ogni forma di più elementare genialità come i Rooney non sarebbe mai pervenuto, tanto per dire.
Fino all'apoteosi wave ballerina di "Let's Dance To Joy Division", con un titolo che farebbe arrossire di invidia il naso (di per sé già alquanto rubizzo) di quel barzellettiere provetto di Eddie Argos degli Art Brut.
Certo, a questi ragazzi va lasciato il tempo di sviluppare liberamente e in santa pace le proprie nevrosi e perversioni creative, e da questo punto di vista l'Inghilterra (con Elton John e la polverina magica della modelle che incombono dietro l'angolo) non è il posto migliore.
Se poi per voi il silenzio è decisamente sexy e siete sulle tracce di collettivi animali o mitici orsi panda (o magari grizzly) dagli occhi di lupo, allora è bene avvertirvi che qua il massimo che troverete è uno stuolo di canguri ubriachi e spiritosi. Non chiedete a questa musica di spiegarvi o cambiarvi la vita, e forse inizierete a divertirvi.
La felicità della banalità, la banalità della felicità.
29/12/2007