I primi passi
Il primo nucleo dei Protomartyr nasce nel momento in cui a Detroit il cantante Joe Casey unisce la propria voce agli esperimenti sonori prodotti fino allora dal duo, formato da Greg Ahee (chitarra) e Alex Leonard (batteria), che aveva scelto di farsi chiamare Butt Babies. Il nome Protomartyr esce fuori nel 2008, quando il trio accoglie il bassista (e seconda chitarra) Scott Davidson, dopo che il ruolo sulle quattro corde era stato per un breve periodo ricoperto da Kevin Boyer, il quale decide presto di proseguire il proprio percorso musicale con un’altra formazione punk della città, nella quale già militava, i Tyvek.
Con tale line-up, tuttora immutata, i Protomartyr verso la fine del 2011 decidono di chiudersi in uno studio per fissare le prime idee di senso compiuto, cercando di materializzare almeno un Ep. Appena quattro ore di tempo a disposizione per esprimere in un concentrato sonoro tutto ciò di cui potessero essere capaci in quel momento. Il quartetto ne uscì con risultati ben al di sopra delle aspettative: un bel gruzzolo di ventuno canzoni, fissate per la prima volta su un supporto fisico, improntate su un ruvido garage molto “chitarroso”, che da subito ne caratterizzò il derivativo, ma al contempo personale, approccio sonoro.
Tredici di quelle tracce confluirono pochi mesi più tardi in quello che divenne il loro esordio ufficiale, No Passion All Technique, titolo apertamente auto-ironico, diffuso dalla label di Detroit Urinal Cake. Il riff insistito di “In My Sphere” viene scelto per farci accedere per la prima volta nel loro mondo, un mondo fatto di brucianti invettive (“Hot Wheel City”, “Call Me Out My Name”, “Bubba Helms”), impressionanti scariche punk (“Free Supper”, “Wine Of Ape”), qualche frangente più melodico (“3 Swallows”) e decisi declamati che esprimono quello che diventerà nel tempo il caratteristico e riconoscibile stream of consciousness di John Casey (“Too Many Jewels”).
A stagliarsi sugli altri, restando per sempre fra le composizioni più apprezzate della band, è “Jumbo’s” (dal nome di un bar sito in midtown), una composizione dai toni chiaroscuri che ai riferimenti Fall e Stooges aggiunge screziature Sonic Youth e ombrosità wave, definendo in maniera pressoché completa il ventaglio di influenze dei Protomartyr. Segue, a un’incollatura, “How We Lived After He Died”, altro frangente direttamente ricollegabile al tipico immaginario di Thurston Moore e soci.
No Passion All Technique, presto divenuto introvabile, viste le appena trecento copie in vinile a suo tempo pubblicate (che si sommarono ad alcune versioni autoprodotte su cassetta, diffuse all’epoca direttamente dalla band) sarà ristampato nel 2019 con l’aggiunta di quattro bonus track, provenienti dalla medesima session di quattro ore, che completano la sensazione di urgenza che pervade quelle registrazioni.
Tre di queste quattro bonus track erano in realtà già state edite, sempre nel 2012 su Urinal Cake, in un sette pollici a tracce tematiche, incentrato su figure di perfetti loser del Michigan: Dreads 85 84, trecento copie anche in questo caso, delle quali le prime cento in vinile rosa. Materiale ormai riservato ai collezionisti.
Nei tre brani contenuti, “King Boots”, “Bubba Helms” e “Carter Eye Glasses”, i Protomartyr confermano di attingere dal punto di vista stilistico più al post-punk inglese, area Fall-Wire, che non agli altrettanto celebri proto-punker di Detroit (vedi Mc5 e Stooges), loro concittadini: le influenze che determinano in maniera forte il sound di Casey e soci arrivano quindi in maniera chiara dall’altro lato dell’oceano.
Sempre nel 2012 è la X! Records a pubblicare un incandescente Ep di quattro tracce dall’italianissimo titolo Colpi Proibiti, che mostra il lato più smaccatamente punk-rock dei Protomartyr.
Sono in totale appena sette minuti e cinquanta secondi che si aprono con la devastazione totale di “Baseball Bat” e proseguono con la rapida sequenza “You’re With A Creep”-“The Milk Drinkers”-“Psychic Doorbell”. Resterà la pubblicazione più incandescente dal punto di vista musicale dell’intera discografia del quartetto di Detroit.
Due anni più tardi arriva l’opera seconda, Under Color Of Official Right, pubblicata dalla Hardly Art. Un disco inevitabilmente più pensato, una raccolta di brani di lunghezza contenuta, alcuni particolarmente brevi e contundenti (“Pagans”, Son Of Dis”), che a tratti riescono a preservare la medesima urgenza comunicativa dell’esordio (la conclusiva “I’ll Take That Applause”).
Senz’altro considerabile come un disco di transizione, Under Color Of Official Right mostra giri di basso diabolici (“Ain’t So Simple”), atmosfere post-punk ossessive (“Scum, Rise!”), tempeste chitarristiche (“I Stare At Floors”), movimenti che potrebbero ricordare gli Interpol (“Trust Me Billy”), ma anche frangenti più levigati (“Come & See”, “Violent”) e l’attenzione a non ignorare una certa orecchiabilità (“Want Remover”).
Ad aprile del 2015 l’inedito assalto sonoro “Blues Festival” viene destinato ad A Half Of Seven, uno split condiviso con gli R.Ring.
L'affermazione
Ma il disco che inizia a cambiare davvero il corso delle cose arriva a ottobre dello stesso anno e si intitola The Agent Intellect, attraverso il quale i Protomartyr ambiscono a realizzare la miglior sintesi possibile fra i ruvidi paesaggi garage-punk e le istantanee post-punk-noise sino allora realizzate, individuando al contempo la strada verso una formula più “matura” e ridefinendo il proprio sound complessivo.
Nei nuovi dodici brani è come se tutte le anime della band entrassero in rotta di collisione, ma per mezzo di una tensione emotiva ancor più scoperta. Alla base dei nuovi testi, del resto, ci sono questioni affettive dolorose, legate alla morte dei genitori di Casey: il padre vittima nel 2008 di un infarto a 72 anni, la madre ammalatasi di Alzheimer di lì a poco. Ecco dunque che i toni divengono spesso più riflessivi del solito, mentre alle parti musicali viene affidato il compito di asciugare tensioni e spigoli, trasformando non di rado le composizioni in poderose evocazioni, in forma di ritmiche e riff circolari, di linee vocali uniformi e testi che si spingono a lambire i confini dell’anima, aumentando di conseguenza il minutaggio medio.
L’ipnosi Joy Division e la tensione del singolo “Why Does It Shake?” ha soltanto il valore di un preavviso. A definire ancor meglio i contorni della situazione, al contempo dolorosa e minacciosa, provvedono, con risultati alterni, la compattezza polemica di “Cowards Starve” (che rilascia fughe di elettrico fervore, ricollocando il sound sulle coordinate dei Fall, così come provvedono a fare la martellante “Boyce Or Boice” e la chiassosa “The Hermit”), una più spigolosa “Uncle Mother’s”, le tossine Mission Of Burma, innervate intorno a un ritornello serrato di “I Forgive You” e i rigurgiti garage di “Dope Cloud”.
Con “Pontiac 87” ed “Ellen” si tocca invece ancor più il nervo scoperto dei drammi interiori del frontman: il primo è uno shuffle sonico e denso di desolazione che si concretizza in un epico crescendo di rabbia sotterranea, il secondo, con la sua avvolgente cavalcata, dispensa brividi a fior di pelle, immaginando il padre a parlare con la moglie sulla tomba di quest’ultima. La dissolvenza onirica sfiorata a più riprese da “Clandestine Time” e dalla dissonante ”Feast Of Stephen” completano il quadro destinato a lanciare su scala mondiale il nome dei Protomartyr.
Sulla scia delle attenzioni catapultate sul quartetto, arriva il cambio di etichetta: la Domino nel 2017 può permettersi di rendere disponibile un budget più importante e un maggior dispiegamento di mezzi, anche promozionali, per supportare quello che diventerà il manifesto politico dei Protomartyr: Relatives In Descent. La band per l’occasione sviluppa un post-punk che preferisce giocare di fino, con atmosfere evocative e dinamiche emozionali studiate ad arte, come ben espresso nella superba “Night-Blooming Cereus”. Illuminante la sintesi rappresentata nel capolavoro anti-trumpiano “A Private Understanding”, con un’andatura che intende prefigurare il pericolo imminente, dove i frangenti più tenui (riprodotti in brevi intermezzi acustici) sono i perfetti stratagemmi orditi per rendere ancor più deflagranti le ripartenze.
L’esangue analisi della situazione contingente americana, così come le non troppo criptiche invettive contro il Presidente, sono solo alcuni dei temi portanti della mai meno che profonda e impegnativa scrittura di Casey, uno di quelli con il carisma di chi ha sempre qualcosa di pungente da dire, fra l’altro depositario di un ruolo centralissimo all’interno del progetto Protomartyr: grazie al suo tono di voce baritonale, rende ancor più inevitabili gli accostamenti con i Fall, i Joy Division, i Birthday Party e i primi Interpol, tutti magistralmente richiamati nella personalissima visione electric-funk concretizzata nei tre minuti scarsi di “Here Is The Thing”.
E’ materia altamente pericolosa, quella contenuta in Relatives In Descent, sempre pronta a infiammarsi (“Male Plague”) o a lanciarsi in scarti improvvisi (“My Children”), densa tanto di piogge elettriche (“Caitriona”, con le chitarre che incrociano il noise dei Sonic Youth con il buio dei primi Cure) quanto di drammaticità (“Up The Tower”) e di istinti psichedelici che prima formano e poi lasciano esplodere muri sonici (“Windsor Hum”). Ma sotto la coltre di macerie e assalti all’arma bianca, non di rado si scorge, vivida e possente, la melodia, come accade in “The Chuckler” e in “Don’t Go To Anacita”. Un disco nervoso e compatto, di rara potenza ed efficacia, nel quale il quartetto si toglie persino lo sfizio di giocare con le parole su celebri e intoccabili titoli zappiani (“Corpses In Regalia”, con il suo basso pulsante), dimostrando di saper ravvivare il sacro fuoco dell’alternative-rock più verace e intransigente, alla faccia di chi continua a ritenerlo superato e retromane, senza più nulla da dire o da mostrare.
Le conferme
Lo stato di grazia della band di Detroit viene confermato un anno più tardi dalla pubblicazione di ulteriori quattro tracce raccolte nell’Ep Consolation, nel quale oltre alle ormai consuete chitarre nervose, alle liriche stordenti, all’atmosfera vigorosamente elettrica, troviamo in due episodi il contributo vocale di Kelley Deal delle Breeders, sorella della più celebre Kim. Sono post-punk velenosi, i due minuti e spiccioli della devastante “Wait”, che apre in maniera imperiosa la scaletta, così come tutt’altro che rassicurante risulta la più melodica “Same Face In A Different Mirror”.
Musica eversiva, rabbiosa, sottolineata dalle sei corde che sembrano dover esondare da un momento all’altro, contenute a stento entro i possenti argini innalzati dall’infernale sezione ritmica. Poi la signora Deal aggiunge un tocco di grazia femminile alle successive “Wheel Of Fortune”, scelta come singolo di lancio, e “You Always Win”. Joe Casey, uno degli avamposti artistici più autorevoli dell’anti-trumpismo, sa come replicare in musica tutto il clima di emergenza regnante negli Stati Uniti (e non solo).
Terminato l’ascolto, non si trova certo l’agognata “consolazione” espressa dal titolo, no, si resta semmai avvolti da una sensazione di diffusa rassegnazione.
Sempre nel 2018 i Protomartyr realizzano due tracce in collaborazione con gli Spray Paint, band con la quale sono spesso andati in tour, raccolte nel 7 pollici Irony Prompts A Party Rat, edito dalla Monofonus Press. In “Corinthian Leather” la voce di Casey si adagia sulle parti strumentali realizzate dagli Spray Paint, mentre in “Bags And Cans” sono i Protomartyr a ideare e suonare la base, con gli Spray Paint che mettono le voci.
Poche settimane più tardi arriva anche un prestigioso split con i Preoccupations, Telemetry At Howe Bridge, nel quale ognuna delle due formazioni si cimenta in una cover dell’altra. I Protomartyr registrano “Forbidden”, mentre i Preoccupations si dedicano a “Pontiac 87”.
Nei mesi successivi Kelley Deal partecipa – come membro aggiunto - ad alcune date del tour dei Preoccupations, che nel frattempo iniziano a lavorare a quello che sarà il loro disco successivo, previsto per i primi mesi del 2020, ma rinviato a metà luglio a causa dell’emergenza Coronavirus. Durante il periodo di lockdown vengono comunque centellinate tre tracce che alimentano le aspettative di fan e curiosi.
Definitivamente cestinata l’etichetta di meri revivalisti post-punk, affibbiata loro un po’ troppo frettolosamente durante i primi anni di carriera, con Ultimate Success Today, pubblicato il 17 luglio, i Protomartyr affinano e diversificano il personale mix stilistico, cercando di allargare i propri orizzonti. Anche se a un primo ascolto distratto sembrerebbe cambiare poco rispetto al passato: i trademark iper-riconoscibili del gruppo restano inevitabilmente la voce di Casey, quel declamato flemmatico sempre pronto a incresparsi e vomitare apocalittiche sentenze, e la chitarra di Ahee, che rovescia ulteriore benzina sul fuoco, qui supportata non di rado dai trepidanti fiati degli ospiti Jemeel Moondoc e Izaak Mills, a formare un diabolico wall of sound.
Il quartetto di Detroit evolve, pur senza eccessivi strappi, e senza perdere un grammo dell’ormai proverbiale indignazione contro il “sistema”, con quegli arrembaggi sonori in grado di conferire ancor più profondità alle liriche di Casey, scritte come se fossero le ultime righe da un’esistenza impossibilitata a rintracciare una luce in fondo al tunnel di un mondo inesorabilmente alla deriva. I Protomartyr si confermano una delle band più programmaticamente “against” nel panorama musicale d’oltreoceano: schierati in maniera ferma contro il governo americano, contro le corporate multinazionali, contro la militarizzazione delle forze di polizia, contro le limitazioni della libertà individuale, con non pochi spunti presenti nei testi che – pur essendo certamente stati scritti prima della pandemia, anche se potevano essere noti i primi focolai in territorio cinese – riflettono la condizione di emergenza non solo politica e sociale, ma anche sanitaria.
Fra le probabili cause di un’ipotetica fine del mondo, elencate fra i portentosi riff di “Processed By The Boys”, figura infatti anche il “Foreign disease washed upon the beach”: soltanto una coincidenza? Una canzone che verte anche sul controllo esercitato dai poteri forti sulle vite dei cittadini (“Fill out the forms/ download the app/submit your face into the scanner”). Il senso di minaccia, di pericolo imminente, che ha spesso accompagnato le canzoni dei Protomartyr, si percepisce tangibile sin dall’iniziale “Day Without End”, angosciante brano che cresce come uno tsunami, arricchito nel finale dal declamato di Casey, che diviene furente, e dall’incedere prepotente del sassofono.
Un occhio attento e critico che osserva e fotografa, cristallizzando per sempre l’America di questi difficili giorni, un approccio molto determinato, che diviene ancor più sonico in “I Am You Now”, a chiudere un trittico iniziale architettato come un continuo crescendo dagli esiti emozionali e psicologici devastanti. La protesta continua a montare, la resa dei conti è oramai a due passi (“Save your tears for the end of the show”), mentre nelle stanze dei bottoni si continuano a perdere certezze (“Shut your mouth/ you’re starting to lose focus”).
Andare ancora giù forte, continuare a fomentare i toni, diventerebbe insopportabile per l’ascoltatore, arrivano quindi due brani più “morbidi”: “The Aphorist”, guidato dal pianoforte, e “June 21”, nel quale interviene, lenitiva, la voce femminile di Nandi Rose (Half Waif). Ma le chitarre sono sempre pronte a squarciare la tela con bordate di eletricità, come il taglio netto, decisivo, posto sopra un quadro di Fontana, e la sezione ritmica che raramente si rende disponibile a concedere momenti di calma rassicurante, con i contributi al violoncello (opera dell’altro special guest Fred Lonberg-Holm) quasi impercettibili dietro il magma sonoro prodotto.
Nella seconda metà del disco trovano posto la sferragliante “Michigan Hammers”, istantanea focalizzata sulla loro area di residenza (nel testo viene citato un episodio storico dal quale risulta interpretabile l’immagine di copertina), una “Tranquilizer” che si poggia per lunghi tratti sulla sensuale nudità di basso e sassofono, l’adrenalina alt-rock di “Modern Business Hymns” e l'incedere minaccioso di "Bridge & Crown".
La repentina alternanza fra dissenso e ineluttabilità della fine lascia temere (difficile possa essere l’effetto desiderato dalla band) che qualsiasi sforzo per ribaltare lo stato delle cose sia destinato a crollare, a sbriciolarsi. Dopo l’ultimo eroe conosciuto, ce ne sarà un altro pronto a raccoglierne il testimone? Il senso di conclusione (“So it’s time to say goodbye”), di dissolvenza, è sancito dalla tragica introspezione di “Worm In Heaven”, la miglior “ballad” sin qui incisa dal gruppo, che chiude il cerchio parlando di oblio post-mortem (“Remember me how I lived/ I was frightened”).
Il “giorno senza fine”, declamato nella prima canzone del disco, sarà quello nel quale ci addormenteremo per sempre? Oppure molto più semplicemente potrebbe trattarsi del giorno fissato per le prossime elezioni presidenziali negli Stati Uniti? Dovesse vincere o perdere Trump, il futuro dell’America, e il significato di queste dieci canzoni, potrebbe essere diametralmente opposto.
Non bastava la pandemia, il frontman Joe Casey nei mesi successivi resta vittima di un doloroso lutto familiare, e le liriche che scrive in questo difficile periodo riflettono tutta l'angoscia del momento. Sarà il materiale che andrà a confluire in Formal Growth In The Desert, pubblicato all'inizio di giugno 2023, cupa istantanea degli ultimi mesi. Si parla di deserti, nel titolo e nei contenuti, deserti interiori ed emotivi. Accanto a Casey, si pone il solito lavorone svolto sulle chitarre da Greg Ahee, che in qualità di co-produttore indirizza anche le scelte musicali, rendendosi perfetto nel concettualizzare in musica le riflessioni declamate dal frontman.
Formal Growth In The Desert è un’opera più eterogenea del solito, a tratti melodica - per quanto melodici possano essere mai percepiti i Protomartyr - e le composizioni, difficilmente inquadrabili nella riduttiva etichetta post-punk, mostrano in più parti slanci indie-rock (“For Tomorrow”) senza mai rinunciare a una certa attitudine “punk” (“Fun In Hi Skool”). Tutte incasellate nell’ormai riconoscibile mood torvo, greve, che da sempre li contraddistingue.
L’azione ritmica svolta da Alex Leonard e Scott Davidson non intende certo lasciare alle spalle le lande funeree e apocalittiche tipiche del sound dei Protomartyr (“Let’s Tip The Creatpor”), mentre Casey, protagonista di alcune fra le sue migliori performance vocali di sempre, non perde occasione per urlare ritornelli, squarciando con rabbia tre anni di silenzio (“3800 Tigers”).
Il minutaggio resta ovunque contenuto, in canzoni dalla grande intensità. Un sesto capitolo che apre ad accenni di cambiamento, mostrando una band sempre ispiratissima. In contemporanea alla pubblicazione del nuovo album, sono state annunciato le prime date del tour che durante il 2023 porterà la band a calcare i palchi di Nordamerica ed Europa.
(Grazie a Francesco Nunziata per i preziosi contributi su "The Agent Intellect")
No Passion All Technique(Urinal Cake, 2012) | 7 | |
Dreads 85 84 (Ep, Urinal Cake, 2012) | 6,5 | |
Colpi Proibiti (Ep, X! Records, 2012) | 7 | |
Under Color Of Official Right(Hardly Art, 2014) | 6,5 | |
A Half Of Seven (split con R.Ring, Hardly Art, 2015) | 6,5 | |
The Agent Intellect (Hardly Art, 2015) | 6,5 | |
Relatives In Descent(Domino, 2017) | 7,5 | |
Consolation (Ep, Domino, 2018) | 7 | |
Irony Prompts A Party Rat (Ep, con Spray Paint, Monofonus, 2018) | 6 | |
Telemetry At Howe Bridge (split con Preoccupations, Domino, 2018) | 6,5 | |
Ultimate Success Today(Domino, 2020) | 8 | |
Formal Growth In The Desert (Domino, 2023) | 7,5 |
Jumbo's | |
Want Remover | |
Dope Cloud | |
A Private Understanding | |
Don't Go To Anacita | |
Wheel Of Fortune (feat. Kelley Deal) | |
Processed By The Boys | |
Worm In Heaven | |
Michigan Hammers |
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