Do you hear that thunder?
(da "Grounds")
Finora hanno provveduto a preparare il campo di battaglia, individuando prima i "nemici" da affrontare, poi i suoni più adatti a contrastarli, quindi i messaggi migliori per riuscire a disarmarli, conquistando un consenso via via crescente, sul quale hanno soffiato a favore il malessere anti Brexit, gli scivoloni di Donald Trump, la congiuntura economica sfavorevole, disuguaglianze di genere, nazionalismi, neo-imperialismi, corruzione, ingiustizie assortite, governi incompetenti, bigottismo e promesse fatue. Per loro si tratta di una vera e propria missione: neppure il Covid-19 ha potuto limarne la rabbia, anzi, le settimane in
lockdown sono state sfruttate per gettare nell'arena nuove canzoni. Ora i tempi sono maturi: con "Ultra Mono" gli
Idles scendono nelle piazze, trovandole colme di indignazione. È il momento di alzare la voce, di fronteggiare l'avversario, di opporsi ai soprusi, di chiedere giustizia.
Ulteriori anticipazioni circa i contenuti del terzo disco della band di Bristol sono giunte attraverso tre devastanti esibizioni tenute l'ultimo weekend di agosto in diretta streaming da Londra: vecchi brani e cover eseguite in maniera più che personale, alternati ad alcuni contenuti di "Ultra Mono", molti eseguiti per la prima volta in assoluto. Sin dalla trasposizione live londinese è risultato evidente il miracolo compiuto attraverso questo album: dare ordine al caos. "Ultra Mono" suona infatti più "organizzato" rispetto ai
lavori precedenti, più "razionale", meno caotico, pur senza rinunciare nemmeno a un grammo della propria, ormai proverbiale, ferocia.
Non è tanto questione di imbrigliare il suono, che anzi fuoriesce da ogni interstizio ancor più potente, bensì di riuscire a gestirlo in maniera più efficace, senza disperderlo, senza sperperarlo. Questo è il principale obiettivo raggiunto, che trasforma in maniera definitiva un gruppo di (almeno all'apparenza) "disagiati" in un'entità artistica definita, consapevole della propria forza, sia balistica che letteraria.
Clack-clack, clack-a-clang clang!
That's the sound of the gun going bang-bang
(da "War")
Il
call-to-arms degli Idles si apre con una canzone violentissima, intitolata "War": traccia programmatica dalla quale non si può prescindere per raccontare il 2020 in musica. I suoni onomatopeici e le urla disperate emesse da Joe Talbot, assieme alle chitarre dissonanti, taglienti, brutali, imitando lo spaventoso suono di una battaglia aerea, confezionano tre minuti di delirio, la realistica visualizzazione dell'orrore, come se ci trovassimo di fronte al drammatico cubismo di Guernica.
E Talbot non si fermerà certo qui: gettata via la museruola, continuerà ad abbaiare e sbraitare per l'intera durata del disco, inveendo come un
hooligan contro tutti coloro che gli stanno sulle palle. Da Trump ai campioni della boxe, non guarda in faccia nessuno: invade ogni spazio disponibile con quella tecnica narrativa mutuata dalle consuetudini del
free style dei rapper. È lui il grande protagonista, sorretto da due chitarre che conferiscono un taglio post-hardcore, perfette nel rincorrersi, coniugarsi, assecondarsi, e la sezione ritmica che non concede mai un solo istante di tregua. Un modo di porsi "against" che rappresenta il
fil rouge in grado di congiungere l'esplosione punk al disagio messo in parole dagli
Sleaford Mods, centrifugando tutto quello che si è succeduto fra i due fenomeni, ottenendo il risultato al quale Talbot ha sempre puntato: suonare come mai nessun altro prima.
Se le strofe di "Ultra Mono" sono potentissime, i ritornelli sembrano bombe nucleari pronte a far saltare in aria qualsiasi arena ("Model Village" è fra i più coinvolgenti, con tanto di videoclip firmato Michael Gondry), nuovi slogan da dare in pasto a un pubblico sempre più incredulo, al cospetto di una band che non sta implodendo in sé stessa (come più di qualcuno aveva frettolosamente pronosticato), bensì sta rendendo le proprie posizioni ideologiche e musicali sempre più nette, senza sussulto alcuno.
La cosa migliore, secondo lo stesso Talbot, di essere stati ignorati per un decennio, è che tale situazione ha consentito alla band di andare avanti senza che nessuno potesse dir loro cosa non fare. Tu chiamala se vuoi "massima indipendenza artistica": un'anarchia che si è trasformata nel tempo nella furia selvaggia senza compromessi divenuta oggi un personale marchio di fabbrica. Ribelli che sfidano il "sistema" con un'urgenza a tratti isterica, mescolata al piglio ironico che smorza la tensione, rendendo lo scenario a tratti persino esilarante, divertente per quanto sa trasformarsi in esagerato, come frutto di un
Quentin Tarantino declinato in musica. Il loro pubblico gode, e tutto sommato anche i mass media se li coccolano: vi scorgono il prototipo di
alternative band perfetto da dare in pasto al circuito, per dimostrare che non tutto ciò che passa è stabilito a tavolino. Poveri illusi: non saranno gli Idles a lasciarsi imbrigliare nel giochetto. Non certo esteticamente belli da vedere, strafottenti con la faccia impunita, i vestiti improbabili, i baffi spacconi molto anni 70, i chilometri di tatuaggi, continuano a dare più fastidio possibile, inviando giganteschi
FUCK a destinatari tutt'altro che misteriosi,
enemiesnon più celati dietro metafore, bensì nudi, puntati e infilzati da nugoli di frecce punk.
How does it feel
To have won the war that nobody wants?
(da "Reigns")
Il capitolo ospiti è inaspettatamente affollato:
Jehnny Beth si cela dietro i francesismi della mazzata proto-punk dai tratti femministi "Ne touche pas moi",
Warren Ellis arricchisce il finale di "Grounds", Jamie Cullum suona il piano nel preludio di "Kill Them With Kindness", brano nobilitato anche dall'intervento di David Yow dei
Jesus Lizard, il sassofono di Colin Webster puntella alcune tracce ("Reigns", in particolare, dove sfida a duello il basso di Adam Devonshire) contribuendo a costruire un
wall of sound ancor più prepotente che in passato. La medesima modalità (ma qui ancor più stridente) perseguita dai
Protomartyr (band con la quale hanno non poche affinità) nel recente "
Ultimate Success Today".
La produzione è stata nuovamente affidata a Nick Launay, coadiuvato da Adam "Atom" Greenspan, ma il lavoro svolto sui suoni da Kenny Beats, spesso a fianco di giganti dell'hip-hop, appare evidente, specie in "Grounds" o "Mr. Motivator". "Grounds" è la minacciosa richiesta ai potenti di dar conto dei morti in guerra, delle vittime di soprusi per i quali nessuno si è mai assunto la responsabilità ("not a single thing has ever ever been mended"), scandita attraverso le sei corde stridenti e sincopate, cadenzate da una cavalcata ritmica math-rock. Potenza e controllo canalizzate ordinatamente, fino all'apocalittico finale.
In "Mr. Motivator", invece, architettano una divertente carrellata di personaggi estrapolati dalla cultura pop, da Frida Khalo a John Wayne, dai
Fall al campione ucraino di pugilato Vasjl Lomachenko. Tracce sgolate, fracassone, istrioniche, teatrali, soverchianti, che travolgono con una slavina di elettricità, eppure a loro modo
catchy, da cantare all'unisono nel fango, contagiose per come riescono, con tutto il carico di ironia e forza della messinscena, a trasformare rabbia e dissenso in carburante per una nuova necessaria spinta sociale collettiva. La sintesi finale di un processo chimico, una catarsi che brucia la terra, lasciando nel fortino nemico soltanto polvere e macerie, per poi spargere i semi della ricrescita, del rinverdimento, di un nuovo inizio. Distruggere per poi ricostruire con le regole di una nuova etica. E lo zenith viene raggiunto nello sconquasso fatale di "Reigns": se fossimo discendenti di una casata nobiliare decaduta, di una famiglia privilegiata di politici, venissimo da una storia di capitalismo spietato, di dinastie che hanno contribuito a creare guerre, discrepanze sociali e surriscaldamento globale, beh, ci tremerebbero le gambe ad ascoltare Talbot che domanda, urlando, come ci si sente ad avere nelle vene sangue blu e aver ridotto la classe operaia in polvere, ad aver vinto le guerre che nessuno, in realtà, vince per davvero.
I want to be loved
Everybody does
(da "A Hymn")
L'unica porzione di miele è somministrata sulle note della maestosa "A Hymn", il primo brano della loro discografia che potremmo provare vagamente a etichettare come "ballad", nonché uno dei pezzi migliori del disco, con dentro aromi di
Pixies (sentite come viene declinata la parola "Down"), per certificare come gli Idles sappiano anche parlare al cuore, del bisogno di innamorarsi, di sentirsi amati e ricambiati. Una sorta di medicina assunta per l'estremo tentativo di curare la propria perenne inadeguatezza. Quando tutto sembra destinato a sfumare, arriva, quasi inattesa, "Danke", con il suo
drumming tribale e una frase mutuata dal repertorio di
Daniel Johnston. Una doppietta conclusiva che rappresenta la parte "romantica" della loro scrittura, un capitolo a sé stante, in grado di conferire ulteriori punti a un lavoro privo di riempitivi.
Nello spazio di appena tre album, gli Idles hanno dato un'impronta determinante al passaggio storico che stiamo vivendo, caratterizzato da decine di band dall'approccio ultra-incazzato, brave nel saper attingere dal dissenso e dal malessere di una generazione per scrivere i manifesti musicali di un'epoca. Idles in Europa,
Protomartyr dall'altro lato dell'Oceano, oltre a un intero
movimento post-punk, sempre più corposo, che si sta imponendo negli ultimi anni, e ancor più negli ultimi mesi, come il migliore - e il più coeso - di sempre, fatta eccezione per i padri storici, quelli che stabilirono le coordinate del genere.
Girl Band,
Iceage,
Fontaines D.C.,
Shame,
Murder Capital, assieme ad altri venuti alla ribalta ancor più di recente, quali
Do Nothing o
The Cool Greenhouse. Tutto molto eccitante. Ma se c'è chi oggi, in questa importante nidiata, sa porsi in maniera laterale, riuscendo a non assomigliare a nient'altro, beh, questi sono senz'altro gli Idles. Consci, e tutt'altro che intimoriti, del ruolo guida che stanno involontariamente acquisendo.
26/09/2020