Quattro ribelli senza una causa, con l'aria da teppisti e i ciuffi da dandy decadenti. Sfrontati quanto basta per farsi largo in una scena di Copenhagen dal nome che è tutto un programma: "New Way Of Danish Fuck You" (un calderone da cui emergeranno anche diversi loro side-project, come i Sexdrome e i Marching Church). Eppure per Elias Bender Rønnenfelt (cantante e chitarrista), Johan Surrballe Wieth (chitarra), Jakob Tvilling Pless (basso) e Dan Kjær Nielsen (batteria) non è stato semplice farsi notare con il loro punk, tanto grezzo e brutale quanto espressivo, capace di fondere genuine suggestioni "post" (più Warsaw che Joy Division, in realtà) a una furia hardcore, senza revivalismi di sorta. Colpa di un fenomeno chiamato “post-punk revival” che ha contagiato mezza Europa, costringendo gli appassionati a discernere attentamente il grano dalla gramigna (ovvero, i gruppi di valore dalla messe di epigoni senza arte né parte).
Fin dall’inizio, tuttavia, è stato evidente che nella mistura sonora tossica e decadente degli Iceage si annidassero i germi della creatività, quella che riesce ad abbattere gli steccati e a gestire anche imprevedibili metamorfosi. Ascoltandoli agli esordi e alle prese con la loro ultima opera, si può percepire quanta strada abbiano percorso, ma senza avere mai l’impressione di avere a che fare con due band diverse: i principali tasselli della loro musica restano immutati, ma sono ora tutti finalmente al posto giusto: l’hardcore-punk del debutto si è via via tramutato in un magmatico post-punk dalle tonalità drammatiche e ricercate, che lascia prefigurare per Elias & C. un futuro luminoso e ricco di interessanti sviluppi.
La nuova brigataPoco più che diciassettenni, gli Iceage possono già vantare una buona reputazione come live act nei club underground di Copenaghen quando pubblicano l'album d’esordio New Brigade (2011). È soprattutto il passaparola a far sì che la prima stampa del disco vada esaurita, garantendo anche al gruppo l'opportunità di effettuare diverse date in giro per l’Europa.
Il disco è una breve sequenza di 12 schegge deviate e spiazzanti: venticinque minuti di genio e sregolatezza nei quali questi determinati newcomer riescono a dar vita a un sorprendente esempio di punk postmoderno, pervaso da un marcato feeling oscuro.
È un breve frammento ambientale/rumorista a introdurci a "White Rune", traccia che fornisce fin da subito una chiara idea della direzione stilistica dell'album, con il suo incipit di sghembo post-punk e il caos generato dalle chitarre. Una voce apatica e ipnotica e i ritmi accattivanti dettati dal basso pulsante vanno a completare un sound al quale risulta difficile restare indifferenti, tanta è l'immediatezza e l'energia sprigionata; il brano echeggia i primi Killing Joke, ma in ottica decisamente imbastardita e accelerata.
La title track "New Brigade", per la quale è stato girato anche un allucinante videoclip, si configura fin da subito come un bizzarro quanto azzeccato ibrido tra punk e metal estremo (di stampo nordico), personalizzato con il cantato distante e al tempo stesso potente che sovrasta due minuti di rock essenziale; un pezzo che, come il precedente, si mostra molto accattivante fin dal primo ascolto.
In brani come "Remember" e "Total Drench" i Joy Division/Warsaw vengono riletti alla luce di una furia hardcore, dando vita a due episodi di ottimo post-punk sfregiato; "Rotting Heights" parte dall'omaggio ai Bauhaus di "In The Flat Field" ma muta velocemente in un'altra sfuriata di poco superiore al minuto e mezzo, velocissima e interrotta a più riprese dagli stop and go tipici del gruppo. "Broken Bone" sfoggia una struttura assai peculiare, con suggestioni no wave al servizio di chorus accattivanti, un po' come avviene nella successiva "Collapse" e nella furiosa "Eyes", che confermano come i vari riferimenti vengano superati per dar vita a qualcosa di nuovo ed estremamente diretto.
Le maggiori analogie con l'hardcore punk si riscontrano in "Count Me In", che supera di poco il minuto di durata, mentre "Never Return" è, al contrario, il brano più "lungo" con i suoi tre minuti di suoni sincopati e con il cantante che recita su un sottofondo ossessivo e sgraziato, un vero e proprio loop punk. Emerge l'influenza dei Crisis, e nella conclusiva "You're Blessed" il gruppo velocizza e decontestualizza le proprie ascendenze senza tralasciare le melodie azzeccate e fuorvianti che venano i venticinque minuti scarsi dell’album. Un eccellente amalgama tra post-punk oscuro e furia hardcore, che assorbe le intemperanze di quattro adolescenti in perenne bilico tra rabbia e gelida apatia.
Lo sbarco in AmericaIl debutto dei quattro ragazzini terribili danesi non passa inosservato nel circuito indie (anche su queste frequenze, dove viene subito segnalato da un’entusiastica recensione). Viene anche ristampato negli Stati Uniti, consentendo loro una prima tournée oltreoceano, inaugurata con una vigorosa esibizione a Brooklyn, New York nel 2013. Dai piccoli club underground di Copenhagen alle "prime pagine" del web mondiale: nemmeno ai nostri tempi, con i warholiani "quindici minuti di celebrità" alla portata di tutti, un balzo del genere può lasciare indifferenti. La Matador Records, così, non si lascia sfuggire l’occasione e li mette sotto contratto per il successivo You’re Nothing (2013).
L'album d'esordio aveva tra i suoi punti di forza la capacità di dosare gli ingredienti in maniera assolutamente coerente e spontanea, riuscendo a definire uno stile pregno di influenze ma, al tempo stesso, personale e riconoscibile. Un equilibrio che nel suo successore non viene meno, ma si carica anzi di nuove e affascinanti sfumature.
"Ecstasy" apre l'album: una partenza col botto, all'insegna del fragore delle chitarre e dei ritmi tonanti; la voce di Elias Bender Rønnenfelt è ora venata di un'inedita amarezza, di note di malinconia assenti in passato: un dolore colmo di rabbia, che impregna e carica di eccitazione il caotico e violento hardcore-punk dei danesi.
Gli Iceage continuano infatti a picchiare duro: brani come "Coalition" o "Everything Drifts" sono delle bordate dark-punk che arrivano dritte in faccia all'ascoltatore; i riff sono aggressivi e oscuri, ma non perdono mai di vista la melodia, nel segno del migliore Rikk Agnew.
"Morals" è la sorpresa dell'album: si tratta infatti di un'originale reinterpretazione de "L'ultima occasione", brano portato al successo da Mina nel 1965; non certo materia facile da manipolare per un gruppo punk, ma i nostri riescono a coniugare la tensione lirica dell'originale con i loro violenti stop-and-go in maniera decisamente naturale. Sul versante opposto troviamo un pezzo come "It Might Hit First", violento e dissonante noise-rock attraverso cui filtra tutta la passione degli Iceage per le sonorità più estreme. Il finale, affidato alla title track, è energico ed emozionante, esattamente come i primi secondi di "Ecstasy".
Una registrazione piuttosto lo-fi amplifica la ruvidità, ma anche la potenza espressiva di un album che, nonostante le dodici tracce, non arriva alla mezz'ora di durata e non presenta il minimo calo. Nuove ombre lambiscono pertanto l'irruenza degli Iceage; ne consegue un disco complementare rispetto all’esordio, in cui la band danese ha allargato il proprio raggio d'azione, adottando una più ampia espressività sia a livello vocale, sia nelle sonorità, con la rabbia e l'impeto degli esordi più presenti che mai, anche se infusi ora di un'amara malinconia. Sinceri e feroci, i tormenti degli Iceage si confermano personali e al tempo stesso universali.
You're Nothing fa breccia in molti cuori oscuri e consolida la statura della band danese, ormai pienamente rodata e disinvolta anche in formato live. La fama conseguita con le prime incisioni frutta un'esposizione mediatica notevole, con ampia trattazione sulle principali webzine e diversi tour, anche oltreoceano. Nel frattempo, nella natia Danimarca, è pienamente sbocciata la famigerata "New Way Of Danish Fuck You", un microcosmo – comprendente come detto anche alcuni side-project degli stessi Iceage – che ha partorito gruppi di rumoroso post-punk (Sexdrome, Marching Church), ma anche act dediti a un'elettronica "pop" e deviata (il "supergruppo" Vår). Tra gli epigoni troviamo inoltre alcune formazioni che stemperano l'iniziale ferocia del sound scandinavo, optando per formule più introspettive e melodiche: come i Lower, i Communions o i dark-rocker Hand Of Dust, che sembrano aver fatta propria la lezione dei Gun Club. Anche il terzo lavoro degli Iceage abbandonerà le ruvidità degli esordi in favore dell'innesto di nuove sonorità, nel complesso più "accessibili".
Annunciato con modalità "last minute", ma anticipato da ben quattro singoli, Plowing Into The Field Of Love (2014) segna appunto un'ulteriore e importante svolta nel cammino dei quattro teppisti di Copenhagen.
Il mutamento è evidente già nell'iniziale "On My Fingers": la voce di Elias Bender Rønnenfelt assume i tratti di un appassionato crooner, mentre i tasti di un triste piano gli fanno da contrappunto, andando a confezionare un brano dall'incedere nobile e languido. Sembra quasi divenuto un novello Nick Cave, il frontman degli Iceage: lo incontriamo in questa nuova veste alle prese con epici crescendo ("How Many, "GlassyEyed, Dormant And Veiled") e ballad noir come "Stay" e "Forever", tra gli episodi più riusciti dell'album, con le loro atmosfere da western crepuscolare.
Altrove, invece, gli Iceage si reinventano garage-rocker dalle ascendenze country: sulle tracce dei Gun Club (“The Lord’s Favorite”), ma anche dei Pogues (“Abundant Living”), episodi nei quali i danesi suonano poco ispirati, piuttosto "ordinari", e viene da chiedersi il perché di una simile inversione di rotta, specie a fronte di un inizio di carriera esaltante come il loro.
Al finale, affidato alla malinconica title track, si arriva attraverso passaggi piuttosto impersonali, come la Cave-iana "Cimmerian Shade" o lo sghembo post-punk di "Simony": il sound non è certo povero, tra fiati, archi e il citato piano (oltre ovviamente alla consueta sezione "rock", seppur meno in evidenza del solito), ma l'amalgama nel complesso non convince fino in fondo. La stessa sensazione che si prova di fronte alla copertina, assemblata all'ultimo momento con quello che il gruppo si trovava intorno: un senso di incompiuto, che stride fortemente con la formula collaudata dei primi Iceage: la furia spontanea di brani come "White Rune" o "Everything Drifts" appare un lontano ricordo, in favore di un mood altalenante, frutto forse dell'indecisione sulla direzione da prendere.
Indubbiamente va dato atto agli Iceage di aver saputo "osare" qualcosa di diverso, ma l'ambizione di espandere le proprie sonorità sembra aver generato il proverbiale passo più lungo della gamba. Plowing Into The Field Of Love è dunque un lavoro discontinuo, in cui ad alcuni potenziali nuovi "classici" (l'opener, in particolare, regala più di un brivido) fanno riscontro diversi momenti privi di carattere. Un passo indietro, insomma, che pone gli Iceage di fronte a un bivio, al momento più delicato della loro carriera. Toccherà alla "prova" del quarto album il compito di dimostrare il reale livello del loro songwriting e quindi il loro effettivo spessore.
La musica è pura emozione, le forti emozioni della giovinezza - rabbia, tristezza, disprezzo, desiderio - così come energia e sesso, gli Iceage possiedono e forniscono con grazia tutte queste cose, consolando i loro seguaci in tutta la confusione dei nostri giorni
(Richard Hell)
Senza limitiMa Elias Bender Rønnenfelt e compagni non se lo fanno dire due volte. Consapevoli del loro valore, sfacciati e temerari al punto giusto, gli ex-punkster di Copenaghen tornano con un nuovo lavoro che fin dal titolo ne rivela le ambizioni: Beyondless. E il loro si conferma proprio un rock no limits, più strutturato e maturo rispetto alle schegge allucinate degli esordi. I tempi della scena del "New Way Of Danish Fuck You" sono ormai lontani, anche se resta l’influsso di una scena prolifica come quella della Copenaghen degli anni Dieci, un'interessante fucina dove, al contempo, emergeva prepotentemente anche l'elettronica sperimentale, virata al noise, della Posh Isolation. Si ascoltino, a tal proposito, anche le sperimentazioni dello stesso Rønnenfelt, assieme a Loke Rahbek (Sexdrome, Lust For Youth), Kristian Emdal (Lower, Age Coin) e Lukas Højland (Red Flesh, Pagan Youth), tutti uniti sotto la sigla Vår, per rendersi conto di come tutte le barriere tra i generi fossero state abbattute con disinvoltura.
Beyondless (2018), in particolare, fa tesoro dell'esperienza con i Marching Church e riprende il discorso da Plowing Into The Field Of Love, ma prova a fare un salto che appare pienamente riuscito, incassando anche l'endorsement del padre del punk americano, il Richard Hell della "Blank Generation": “Mi identifico pienamente nella loro musica – racconterà Hell - Sono come una piccola gang urbana, fedeli l'uno all'altro, diffidenti nei confronti degli estranei (di cui i giornalisti musicali come me sono gli esempi più sospetti), ma allo stesso tempo sembrano maturi e competenti. Non solo suonano e compongono bene, ma la produzione dei loro dischi, anche nei momenti più caotici, è impeccabile”.
In effetti, il nuovo album riscopre un gusto "proto" punk (più che "post"-punk) che riporta alla mente il Cave di "Kicking Against The Pricks", quando con i Bad Seeds rileggeva a modo suo i classici della tradizione rock americana. Al tutto, bisogna unire l'irruenza giovanile di ventenni che sanno dove vogliono andare e hanno le capacità per farlo.
Gran parte del disco ruota attorno al brano "Catch It". È come se Cave eseguisse una cover degli Stooges: una traccia piena di oscura e seducente melanconia e sfrontatezza rituale. Rønnenfelt, vestendo i panni del rocker maledetto, canta "You want it, you want it, you want it again/ Why don't you come and ask me?/ I adore you, my friend". Il brano ha il suo contraltare in "Take It All", dove emerge l'influenza dei Bad Seeds di "Your Funeral... My Trial".
Svetta anche l'ottima "Pain Killer" che si avvale della voce dell'attrice e cantante Sky Ferreira, recentemente entrata anche nel pantheon di David Lynch. Qui, gli Iceage sono presi in un tornado di suggestioni anni 70, un po' alla Johnny Thunders, che ci parlano di vite sbandate e relazioni di mutua dipendenza che probabilmente non troveranno mai redenzione sotto il sole: " Praying at the altar of your legs and feet/ Your saliva is a drug so bittersweet/ I’ll arrogate what’s there to take/ In an evanescent embrace… You became my pain killer/ I rue the day/ Alright, alright, alright".
Non mancano nemmeno immersioni in un rock allucinato e sgangherato come in "The Day The Music Dies", dove si perdono le coordinate temporali ed emerge una deriva alcolica in cui "The future's never starting/ The present never ends".
Come si diceva, gli Iceage sembrano guardare a tratti anche agli ultimi Marching Church. Si ascoltino, a riguardo, le atmosfere di "Plead The Fifth" e lo strampalato pop-noir-jazz dai tratti cabarettistici e surreali di "Showtime".
Probabilmente i fan dei primi dischi del gruppo danese avvertiranno il cambiamento, anche se il brano iniziale "Hurrah" getta un ponte con il ruvido post-punk degli esordi, seppur in una dimensione meno "lo-fi". Nell'omonima traccia che chiude l'album, troviamo una pista per intravedere un paesaggio nuovo e far emergere prepotentemente una forma di catarsi degli ardori punk adolescenziali.
Beyondless si rivela quindi un ottimo ritorno per una band capace ancora una volta di spiazzare l'ascoltatore e costruire un sound sempre personale e riconoscibile, anche grazie all'indubbio carisma del suo incontrastato frontman, Elias Bender Rønnenfelt, a cui non manca certo il physique du rôle.
Un nuovo rifugioConfortati dal riscatto del quarto album, che ha dissipato gli ultimi dubbi sul loro reale valore, gli Iceage portano a compimento una nuova piccola rivoluzione, che ne sancisce il passaggio dalla Matador alla Mexican Summer, oltreché l’ingresso di un nuovo membro: il chitarrista Casper Morilla Fernandez. Ne scaturisce quello che forse a tutt’oggi appare il loro vertice assoluto: Seek Shelter (2021), che è anche il loro primo disco ad avvalersi di una produzione esterna, affidata a Peter Kember: meglio conosciuto come Sonic Boom. Un nome che evoca suggestioni psichedeliche dall’elevato contenuto space-rock.
La formazione danese ha ormai accantonato lo stato di cult-band, e l’hardcore-punk degli esordi è ora un magmatico post-punk dalle sfumature drammatiche e ricercate. All’evoluzione musicale si è affiancata una più marcata coscienza sociale e politica: non solo la band ha subito messo in chiaro alcune errate interpretazioni di alcuni simbolismi utilizzati agli esordi, che avevano attirato critiche di fascismo e razzismo, ma ha anche preso posizione nei confronti di alcune scelte politiche scellerate, che in Danimarca stanno costringendo le popolazioni non bianche a vivere in veri e propri ghetti.
Nelle nove tracce del disco, registrate a Lisbona, al nichilismo è subentrata la consapevolezza. Le crepe scavate nel corpo post-punk da influenze gothic e fuzz-pop hanno aperto la strada a ulteriori mutazioni di stile, che non hanno tuttavia sacrificato lo spirito selvaggio degli Iceage. Ne è prova il singolo di lancio, “The Holding Hand”, un rock-noir sudicio e malsano che mette in rilievo il tono più apocalittico del nuovo progetto, graffiando con inquietudine noise-goth e un timbro di voce tremolante. Con il successivo singolo “Vendetta” gli Iceage violentano l’iconica immagine punk-rock, per un travolgente dance-rock in stile madchester che, oltre a far impallidire Shaun Ryder, riporta in auge le tensioni erotiche dei Primal Scream di “Screamadelica”, e affronta il problema della deriva dispotica della cultura occidentale. A questo punto, confusione ed eccitazione hanno spianato la strada a uno dei singoli più audaci e potenzialmente iconici dei tempi moderni, ”Shelter Song”. Una liturgia a base di post-punk, spirituals e britpop, nutrita da una sezione archi e da un coro gospel che tolgono il respiro.
“Seek Shelter” può a questo punto senz’altro contare su alcune delle canzoni più potenti della band danese, ciò nonostante è difficile definire una qualsiasi delle nove tracce come minore. Arde di pathos, infatti, l’incandescente ballata “Love Kills Slowly”, un’appassionata spirale lirica-apocalittica alla Nick Cave. Sorprende la verbosa poetica alla Bruce Springsteen/Lou Reed di “Gold City”. E non perde smalto la band neanche quando entra con decisione in un ambito rock più tipico con “The Wilder Powder Blue”, o dissotterra le pulsioni più grintose dei primi Oasis in “Dear Saint Cecilia”.
La furia alla Mc5/Stooges che anima “High & Hurt” è calibrata da un’attitudine psych-rock e dalla intelligente citazione di “Will The Circle Be Unbebroken”, popolare inno cristiano dei primi anni del 900, con basso e batteria che travolgono i sensi e l’irriverenza dei Fall a fare capolino. Ultima sfida per i danesi, la giocosa e bizzarra “Drink Rain”, che con una ricca sequenza di accordi confonde Irving Berlin e Vic Godard, graffiando ancor più nel profondo di quel goth-rock che da sempre ha tracciato il percorso creativo del gruppo. A donare ulteriore fascino è il contributo – presente in due brani - del Lisboa Gospel Collective, coro gospel portoghese che ha raggiunto Elias e soci in studio a Lisbona.
Altra buona notizia è la scrittura, il vero elemento discriminante tra gli Iceage e altre band coeve. Tutto questo si traduce in un’autentica sferzata d’energia, che suona come un segno di rinascita emotiva e creativa che merita ancor più attenzione in un periodo storico saturo di torbide esternazioni dal mood dolente.
Del resto, a distinguere gli Iceage dalla pletora di emuli post-punk è anche la raffinatezza del loro background culturale. Come riporta un entusiastico Richard Hell, “nelle interviste di Rønnenfelt, si possono cogliere riferimenti a Carson McCullers (‘The Heart Is a Lonely Hunter’), Georges Bataille (‘Story of the Eye’), Peter Shaffer (‘Equus’), Yukio Mishima (‘The Sailor Who Fell from Grace with the Sea’), Jean Genet (‘Thief’s Journal and Miracle of the Rose’), Octave Mirbeau (‘The Torture Garden’), Henry Miller (‘On Writing’), James Agee (‘A Death in the Family’). E non c’è nulla di ostentato, è soltanto pura e libera conoscenza”. Un sostrato prezioso a cui si accompagna una verve teatrale degna del più sfrenato Cave, anche se Elias tiene a precisare che “quello che la gente vede ai concerti non è un personaggio, non è finzione, è più un’esagerazione di me stesso, un’estensione di ciò che sono nella vita” (Rolling Stone, 2021).
La sfida, insomma, non si ferma, all’insegna del motto “evolversi sempre, arrendersi mai”. In attesa delle prossime prove, il ghiaccio degli Iceage continua a bruciare di passione.
Contributi di Marco De Baptistis (“Beyondless”), Gianfranco Marmoro (“Seek Shelter”)
New Brigade (Escho/ Tambourhinoceros, 2011) | 7,5 | |
You're Nothing (Matador, 2013) | 8 | |
Plowing Into The Field Of Love (Matador, 2014) | 6,5 | |
Beyondless (Matador, 2018) | 8 | |
Seek Shelter (Mexican Summer, 2021) | 8,5 |
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