La passione che Tony Wilson ha profuso per sostenere gli Happy Mondays è paragonabile solo a quella che anni prima mise per i Joy Division. Il fondatore della Factory Records era convinto che Shaun Ryder fosse uno dei più grandi autori di testi nella storia del pop, lo considerava una sorta di novello Yeats.
Manchester era all’epoca una delle capitali della musica, soprattutto quando nel 1989 l’album di debutto degli Stone Roses e i primi singoli di Inspiral Carpets e Charlatans cominciarono a far parlare della scena come di un nuovo movimento, lontano dal post-punk e proiettato verso un futuro in cui fra rock e dance non ci sarebbero stati più confini. Nel giro di pochi mesi Manchester diventò Madchester e l’Inghilterra venne sommersa da un’ondata di droghe sintetiche mai vista prima. Quella scena fu tanto musicalmente fertile quanto marcia a livello umano, tanto veloce a sgonfiarsi a livello di riscontro commerciale, quanto influente sia nell’immediato sia sulla lunga distanza, almeno per quanto riguarda il sottobosco della musica britannica.
Manchester divenne la città dei party lunghi tutta la notte, dello sballo e della musica house. La house era dappertutto e piaceva a tutti, del resto l’Inghilterra l’aveva assorbita ancora prima degli Stati Uniti, che l’avevano inventata. È in Inghilterra che la house è entrata per la prima volta in classifica, è in Inghilterra che Farley Jackmaster Funk è andato in televisione nel 1986 a cantare “Love Can’t Turn Around”, è in Inghilterra che la house ha iniziato a contaminare gli altri generi musicali come un germe inarrestabile.
La fascia medio-bassa della popolazione aveva all’improvviso trovato in Manchester una El Dorado del divertimento: oceani di persone confluivano ogni sera nei club della città da tutte le Midlands, per fuggire dal grigiore della provincia e delle periferie. Ovviamente in tanta gente erano inclusi anche tanti tossicodipendenti e tanti criminali. Alcuni locali divennero punti strategici per lo smercio delle sostanze allucinogene più potenti in circolazione e presto le gang cominciarono a litigarsi il territorio come branchi di lupi nella foresta. Le sparatorie furono all’ordine del giorno, così come i morti per overdose, gli incidenti durante i rave, i pestaggi e gli arresti. Pochi momenti nella storia della musica – perlomeno nei paesi democratici – portano più cicatrici di quella stagione.
Un divertimento a caro prezzo, di cui nessuno sembrava però accorgersi. Quella di Madchester fu un’illusione perfetta. La Thatcher pretendeva di aver svecchiato l’economia britannica, l’Occidente aveva sconfitto il comunismo e la musica aveva ripreso a inneggiare alla vita, dopo un decennio di terrore (la minaccia atomica che aveva soffocato la new wave) e piagnistei (gli strali degli Smiths contro la musica da ballo). Titoli degli Stone Roses come “I Am The Resurrection” e “I Wanna Be Adored” erano emblematici dell’atmosfera che si respirava. Quell'agglomerato urbano era la punta di diamante di una nazione che aveva ritrovato fiducia nel futuro.
Quando in realtà non c’era sicurezza alcuna. La disoccupazione aveva raggiunto livelli disarmanti, la criminalità giovanile era impennata, la pirateria ebbe un autentico boom, molta gente finì in galera, perse la vita o perse il contatto col mondo a suon di pasticche. Ma ogni sera le luci e il ritmo reiteravano la sensazione che tutto andasse bene e che ci si potesse divertire all’infinito. Quando qualche anno dopo la bolla esplose, in molti si ritrovarono senza punti d’appiglio. Fu un risveglio traumatico, e come poteva del resto essere diversamente?
Eppure da un simile sfascio nacquero alcuni dei suoni più avanguardistici che la musica pop avesse prodotto fino a quel momento. Alcuni dei testi più profondi. Alcune delle atmosfere più estatiche. E soprattutto la profonda sensazione di appartenere a qualcosa. Se si era dei perdenti, lo si era tutti insieme. Se non si aveva un soldo, con le conoscenze giuste si poteva porre rimedio facilmente. Se si era sempre stati esclusi, ora non lo si era più (non a caso la comunità gay fu parte attiva di quella stagione). Madchester ha significato prima di tutto riscatto, era la nuova musica dal basso per il basso. E che a Morrissey andasse bene o meno, svolse una funzione sociale irripetibile, unì le persone, aprì la mente – perlomeno a chi ebbe la fortuna di sopravvivere – e quel che più ci interessa nello specifico, permise una grande commistione di generi musicali e il rinnovamento degli stessi.
Un cappello introduttivo lungo, ma assolutamente necessario, perché nessun disco più di “Pills ‘N’ Thrills And Bellyaches” rappresenta quel preciso momento storico. La musica che contiene è talmente immediata che all’ascoltatore distratto potrebbe bastare da sola, ma conoscerne i retroscena, sapere come mai suoni così e come venne vissuto da chi ebbe a impattarci in diretta, può far assumere al suo contenuto tutta una serie di ulteriori sfumature.
Gli Happy Mondays erano i più prolifici di quella scena: avevano già pubblicato due album quando gli Stone Roses debuttarono, dischi prodotti da gente importante come John Cale e Martin Hannett. Tuttavia si preferì affidare il terzo capitolo a una coppia di giovani produttori house, Steve Osborne e Paul Oakenfold, che bazzicavano per i locali da diversi anni benché non fossero mai stati coinvolti in progetti importanti. Fu un salto nel buio, ma i risultati gli diedero ragione: entrambi avrebbero in seguito diretto nomi importanti del pop rock britannico.
Il singolo della svolta esce nell’aprile del ‘90, si intitola “Step On”, è la rivisitazione di una hit del 1971, “He’s Gonna Step On You Again”, del sudafricano John Kongos. L’originale era un piccolo gioiello pop di chitarre boogie distorte, coralità soul e tappeto percussivo pulsante ottenuto tramite nastri preregistrati. La versione degli Happy Mondays è una bomba da dancefloor con pianoforte house e una batteria sincopata dal suono tirato a lucido, che di lì a breve si sarebbe ritrovata in centinaia di dischi con contaminazioni elettroniche. Ci sono però anche elementi rock, in particolare le schitarrate e il canto di Ryder, che sfoggia il suo accento mancuniano con fierezza, sbraita, si arrochisce e in diversi tratti fatica a raggiungere la nota desiderata. Il suo stile sgraziato è sorprendentemente efficace e sembra fornire al brano un ulteriore propellente ritmico. Lo si potrebbe considerare discendente delle declamazioni di Mark E. Smith dei Fall, ma smussate e rese appetibili per il grande pubblico.
Il pezzo rende la band improvvisamente famosa, si issa al quinto posto in classifica e fa entrare nell’immaginario comune la frase “You’re twisting my melon man” (slang che sta per “Mi confondi”, “Mi fai girare la testa”), assente nel testo originario.
Passano alcuni mesi, tempo per gli Happy Mondays di imporsi nei festival estivi sparsi per la Gran Bretagna, e in ottobre tocca a un nuovo singolo, “Kinky Afro”. Questa volta è un originale, ottenuto da una jam del batterista Gary Whelan e del bassista Paul, fratello minore di Shaun. Aggiunte le tastiere celestiali di Paul Davies e il riff sferzante di Mark Day, il brano sembra dare un corpo ultratecnologico all’indie pop, mescolandovi classicità rock (le lunghe note di chitarra sostenute dopo il ritornello) e citazioni disco music del tutto decontestualizzate (il giro di basso dichiaratamente alla Hot Chocolate, il coretto preso da “Lady Marmalade” delle Labelle). A un simile ottovolante è affiancato uno dei testi più duri del pop britannico, sul rapporto fra un padre che non si sente adatto al proprio ruolo e il figlio che non ne accetta la figura. Il linguaggio urbano di Ryder rende la scena ancora più cruda e già solo l’attacco toglie il fiato: “Son, I'm 30, I only went with your mother 'cause she's dirty”. È opinione di molte persone vicine a Shaun che parte di quei versi fossero di natura autobiografica.
Forse per la musicalità contagiosa, forse per il testo così emotivo, “Kinky Afro” infila nuovamente la top 5 britannica, e quando un mese dopo è l’album a raggiungere i negozi, la stampa musicale sembra impazzire. Sia Nme sia Melody Maker lo eleggono disco dell’anno parlando di evento storico per la musica inglese. Le vendite sono lusinghiere, con il numero 4 centrato nella settimana dell’uscita e il disco di platino raggiunto nel marzo del ’91.
La scaletta è composta dai due inni di cui sopra e da otto inediti, altrettanto validi. Gli aspri ma poetici rigurgiti di Ryder tinteggiano musiche fresche e ribollenti, un misto di civiltà e esotismi, decadenza e ritmo: il movimento denominato Madchester trova il suono definitivo.
Poggiando su chitarra garage rock, ritmo funk e tastiere dance fantascientifiche, “God’s Cop” si fa beffe sin dal titolo del commissario James Anderton, che tentò di far chiudere The Haçienda, il locale di Tony Wilson intorno a cui ruotavano gli artisti della Factory. “Donovan” è un flusso di coscienza che dopo un accenno alle solite pillole magiche, spara una serie di immagini casuali. La musica non ha una struttura precisa e sembra seguire le parole: inizia come un brano chill out, fra suoni d’atmosfera e una delicata linea di fisarmonica, per poi scattare a metà in una forzuta jam elettrica.
“Loose Fit” descrive le sensazioni di chi viveva quella scena (“Don't know what you saw, but you know it's against the law, and you know that you want some more”), su una base ipnotica per chitarra jangle pop e voce soul femminile, quella di Rowetta, che sarebbe diventata loro corista fissa nelle esibizioni dal vivo. “Dennis And Lois” è forse più scolastica, ma lo sfrontato arrangiamento house la rende irresistibile, mentre “Holiday” sfoggia contrappunti di chitarra funk e improvvisi colpi di tastiera che si perdono fra il verso dei gabbiani e i cori filtrati.
“Bob’s Yer Uncle” è forse il momento in cui tutte le persone coinvolte nel progetto si incrociano al massimo delle potenzialità. Il battito ovattato, le percussioni tropicali, il reiterato duetto di sax e flauto, il barcollio dub del basso, i gemiti sensuali di Rowetta, la chitarra acustica che scandisce il ritmo, la voce bassa e insolitamente morbida di Shaun mentre descrive un atto sessuale. Amalgamato dal taglia e cuci di Osborne e Oakenfold, il brano abbatte ogni steccato. È funk, è rock, è pop, è musica d’atmosfera, è pista da ballo, è sottofondo da cocktail, è colonna sonora lisergica.
C'è però anche un personaggio che sintetizza l'estetica Happy Mondays in maniera estremamente efficace. Personaggio che ancora oggi rappresenta la band al pari di Shaun. Lo si rintraccia nei credits dell’album, che recitano testualmente:
Shaun Ryder – Lyrics and vocals
Paul Ryder – Bass guitar
Mark Day – Lead and rhythm guitar
Paul Davis – Keyboards and programs
Gary Whelan – Drums
Bez – Bez.
Conosciuto da tutti con il breve nomignolo di cui sopra, Mark Berry non tocca strumento e non canta una nota del disco. Ma con il suo look inconfondibile, la faccia scavata, le felpe improbabili e i pantaloni larghissimi, è fisso a ballare sul palco in ogni concerto della band, agitando ogni tanto un paio di maracas. Bez è un po’ il simbolo di quell’epoca e dell’arte di arrangiarsi dei ragazzi disagiati che tanto vennero colpiti dalla musica degli Happy Mondays. Non sapeva cantare né suonare, ma era lì con loro, ci metteva il ballo, donava il suo fisico alla causa e, ovviamente, si sfondava di sostanze illegali. Fu insomma la personificazione di quel misto fra autolesionismo e senso di riscatto che caratterizzò tutto il carrozzone.
Dopo questo album la carriera degli Happy Mondays non sarebbe purtroppo durata a lungo, ma quanto basta per fare rischiare il fallimento alla Factory grazie alle folli spese di produzione di “Yes Please!”, uscito nel 1992 e rimasto in classifica appena un paio di settimane. Shaun lo si ritroverà comunque in gran forma – più artistica che fisica – nel 1995 alla guida dei Black Grape.
21/12/2014