Per distinguere un musicista talentuoso da un onesto comprimario non servono le grandi imprese. Bastano le piccole cose. Se qualcuno nutre ancora dubbi sul comparto in cui piazzare Damon Albarn, è infatti proprio da una piccola cosa, il progetto Gorillaz, che può arrivare l'indicazione decisiva. Il gruppo cartoon, nato quasi per caso nel 2001, ha presentato già motivi d'interesse nell'album omonimo: un disco capace di coniugare qualità e fruibilità con un approccio tanto leggero quanto notturno, e sempre e comunque sghembo. Trascinato al successo anche di vendite da un'abilissima strategia di marketing e da due singoli perfetti, il progetto può proseguire.
Forte di aver acquisito un bacino di utenza ampio, Albarn decide così di osare: i Gorillaz di "Demon Days" sono praticamente un altro gruppo. Se il suono del primo album era uno specchio dei tempi in cui è uscito frullando pop, hip-hop ed elettronica, quello di "Demon Days" è una dichiarata operazione revivalista con obiettivo gli anni Ottanta.
Che qualcosa sia cambiato lo si capisce subito: l'apertura (dopo una breve intro) è affidata a "Last Living Souls", praticamente un synth-pop basato su un tema classicheggiate passato prima al pianoforte e poi ai violini. A far capire che la cifra stilistica è mutata contribuisce "Dirty Harry", che inizia come funky per coro di bambini, con uso e abuso di synth, prima di essere trasportato da un intermezzo classico in un irruento rap a completare così l'operazione di taglia e cuci tra moderno e passato. L'arte di Albarn consiste nell'inventarsi, rubare, riciclare e frullare idee e suoni tirando fuori brani accattivanti, di qualità e vendibili. E ci riesce perfettamente. Testimonianza ne sono "Kids With Guns", chitarra new wave , sintetizzatori barocchi e cadenza tra l'epico e il dimesso; la pulsante "O Green World", che approda in territori glam con cori e chitarre elettriche; "Every Planet We Reach Is Dead", una melodia distesa, dal sapore antico, molestata da un piano sghembo e da un arrangiamento elettronico e "Fire Coming Out Of The Monkey's Head", immersa in un atmosfera da western urbano dove un parlato si alterna a una dolce parentesi country-folk.
Ancora meglio riescono a fare i brani più immediati: "Feel Good Inc.", scelta come primo singolo, si fregia di un basso avvolgente, rintocchi di chitarra, battito di mani, incursioni rap e melodia (sofisticata giusto quel tanto) da fine estate, a metà tra lo spensierato e il nostalgico, mentre con "Dare", affidata a una voce femminile con Albarn a fare da arrangiamento con un lamento alla Yorke, ci si tuffa in discoteca, con synth e scampanellii d'altri tempi. A chiudere il tutto (e a confermare l'eclettismo del musicista) ci pensano l'aria di "Don't Get Lost in Heaven", tra Beach Boys e musical, e il gran finale di "Demon Days", che mescola sinfonia e musica nera. Se già ci veniva da parlar bene del precedente disco del (ebbene sì, diciamolo pure apertamente) talentuoso leader dei Blur, non si può che caldeggiare a maggior ragione questa seconda prova targata Gorillaz, un lavoro sicuramente differente dall'esordio, forse meno fresco e meno immediato, ma ancor più incisivo e ispirato.
25/07/2012