“For those who give a shit, and I’m not assuming anyone does, hopefully, there’s a bit of an insight into who I am; otherwise is just a neurotic, left-handed, middle-aged man talking nonsense out there into the void”
(Damon Albarn nel documentario di Bbc2 sulla realizzazione di “Everyday Robots”)
Damon Albarn ha 46 anni e il primo disco della sua carriera, “Leisure”, dei Blur, è uscito ormai 23 anni anni fa. Per lui, oltre ai Blur, ci sono stati i Gorillaz, Mali Music, The Good The Bad & The Queen, i libretti per due opere, Rocket Juice & the Moon e innumerevoli altre collaborazioni e produzioni.
Ma stavolta è diverso. “Everyday Robots” è una seconda prima volta: Albarn, infatti, finalmente, non ha più bisogno di nascondersi dietro pseudonimi, ologrammi o alter-ego per raccontare la sua storia. Una storia personale e autobiografica, quella di “Everyday Robots”, fatta letteralmente ripercorrendo i luoghi della propria formazione, da Leytonstone, Londra, a Colchester, Essex, raccontando i posti e le persone, ma, soprattutto, raccontando se stesso.
Ascoltare i 12 brani dell’album è come fare un viaggio nel lato oscuro della mente del musicista inglese. Le sue ansie, le sue paure sono sempre le stesse che già permeavano la produzione dei Blur: la perdita di contatto umano causata dalla tecnologia, l’angoscia della solitudine e del suo horror vacui, lo smarrimento di se stessi e del contatto con la realtà, le dipendenze. Ma, intorno, non ci sono più le parabole e la fiction dei mille personaggi degli anni Novanta a portare un messaggio universale: c’è solo la vicenda esistenziale di un uomo, ormai di mezza età, davanti a uno specchio.
Un racconto di vita che non pretende di insegnare, in cui lo scrittore non si pone sul piedistallo dell’esperienza ma, al contrario, abbassa la testa davanti ai suoi ascoltatori, proprio come nella foto scelta per la copertina. Si mette a nudo, Albarn, parlando apertamente nei testi delle sue abitudini con le droghe, come in “You and Me” ("Jab jab, digging out a hole in westbourne grove/ Tin foil and a lighter, the ship across/ Five days on, two days off, in september/ when the sun sets soon now"), della “storia del suo cuore infedele”, dell’incomunicabilità in “Hostiles” e “The Selfish Giant” (“I had a dream that you were leaving/ It's hard to be a lover when the TV's on/ And nothing is in your eyes”) che ribalta completamente l’omonima favola wildiana.
Una prova di maturità e coerenza in tutti i sensi: per lo stile, le splendide e malinconiche ballad in cui si mixano la tradizione pop inglese, il gospel, la musica africana, i campionamenti e i beat elettronici in un perfetto compendio di tutte le esperienze musicali del compositore, riuscendo a diventare sinonimo di un vero e proprio Albarn touch; per la scelta dei collaboratori: il coro gospel della chiesa pentecostale di Leytonstone che il musicista sentiva cantare dall’esterno da bambino, la produzione affidata a Richard Russell – già al suo fianco in altri progetti – e Brian Eno, conosciuto in palestra e coinvolto nella conclusiva “Heavy Seas Of Love”, la chiusura positiva dell’album.
C’è un battito, nella produzione di Damon Albarn. Una pulsazione, come se avesse bisogno della sua musica per ricordarsi di essere vivo. Un ritmo cardiaco che si è acceso nel 1997 con quella “Essex Dogs” messa, emblematicamente, in chiusura dell’unico self-titled dei Blur, come la ricerca di un’identità, e che, rimasto silente fino ad ora, ha potuto ricominciare a farsi sentire, vivo e forte, in questo “Everyday Robots”.
02/05/2014