È il destino dei grandi fenomeni pop. Di dividere, spesso e volentieri, critica e pubblico. Anche quando gli esiti estetici potrebbero tranquillamente definirsi trascurabili. È il caso dei Green Day che, compiuti ormai i vent'anni di carriera, non hanno mai detto nulla di granché originale, ma lo hanno sempre detto benino, con un certo qual talento melodico, un bioritmo compositivo invidiabile e un'indubbia efficacia linguistica.
Hanno spesso diviso, dicevamo, e alimentato sul loro conto opinioni diametralmente opposte. La prima volta nel lontano 1994 quando lasciarono l'indipendente Lookout per firmare con la Reprise, preferendola alla più "ortodossa" Epitaph. E sulle fanzine di punk duro e puro si scatenarono anatemi e processi contro di loro. Accusati di avere più a cuore il conto in banca che l'etica professionale. Poi "Dookie" e svariati milioni di copie vendute dopo l'equivoco si chiarì. Parzialmente, almeno. E nei più avveduti cominciò a farsi largo il sospetto che forse tanto punk non lo erano mai stati, al limite solo pop-punk o power-pop. E allora giù "sono i nuovi Nirvana!". "No, sono i nuovi Monkees". E via discorrendo. Chi più ne ha più ne metta.
Avevano legioni di fan, ma ai festival grossi venivano presi a bottigliate dai metallari. Perché loro erano quello che erano: un gruppo pop cresciuto fra i punk e gli alternativi della "rossa" Berkley. E "Warning" (2000) tolse ogni dubbio al riguardo: canzoni ancora più distese e melodiche e messaggi a sfondo sociale che rimpiazzavano l'attitudine fancazzista degli esordi.
Ora, dopo aver messo d'accordo più o meno tutti con l'incensato e richiestissimo "American Idiot" del 2004, efficace montaggio di riff punk/rock e arrangiamenti pop in forma di combat-opera di concetto, ci ricadono con "21st Century Breakdown". Che è balzato subito in testa a Billboard ma che, c'è da giurarci, rinfocolerà ripulse ed entusiasmi parimenti superflui ed esagerati, in un senso o nell'altro, anche fra la critica "alta" e specializzata: c'è già chi lo incorona, come Rolling Stone e Kerrang, e chi lo stronca, con o senza pietà, come Spin e Pitchfork. E noi nel mezzo che cerchiamo di capirci qualcosa senza arroccarci su posizioni preconcette né offendere il buon senso del lettore medio.
"21st Century Breakdown" è un disco che procede sulla falsariga del suo predecessore, all'insegna di un'ostentata idea pop/rock di classicità e maturità, ma riducendone la continuità tematica e l'amalgama nei raccordi fra un brano e l'altro. Brani che, peraltro, tolto qualche scampolo abbastanza pregevole, non sembrano sufficientemente attrezzati dal punto di vista della freschezza, né della scrittura, per reggere la mole e le ambizioni del concept (un vago fotoromanzo a sfondo sociale che rievoca la love story di una coppia di ribelli - lui un mezzo delinquente, lei una no-global idealista - negli ultimi anni bui della presidenza Bush).
Più che gli Who o i Kinks, dunque, il modello, dichiarato, e comunque inarrivabile, è una collezione di canzoni che dialogano fra loro sul tema della fuga dalla realtà come "Born To Run" di Springsteen.
Peccato, però, che i testi siano di una banalità sconfortante e che dopo quattro o cinque pezzi comincino a pestare vuoto sul tasto della rabbia e dell'alienazione, ripetendo sempre gli stessi slogan spesso senza neanche sforzarsi di cambiare le parole (voi ridete, ma c'è chi li ha accostati ai Clash, chi addirittura ha tirato in ballo i libri di Palahniuk, e qui, vabbè, stenderei un velo).
Meglio parlare di come suona: rock classico, si diceva - pompato a dismisura dalla produzione di Butch Vig (sì, è ancora vivo e fa tenerezza per quanto è rimasto agli anni 90, ma il mestiere innegabilmente non gli manca), con la voce e la chitarra sistematicamente raddoppiate (cosa che pare facesse incazzare come un'ape Cobain ai tempi di "Nevermind"), i volumi enfi e muscolari, e un sentore generale di eccessivo spreco e pulizia - amarcord cali-punk, ballate da bocciare, e qualche barocchismo estemporaneo che tutto sommato lascia il tempo che trova.
Aggiungete che le melodie non sono proprio tutte di prima mano e che pescano da contesti non sempre nobili (ascolti Billy Joe cantare "Glooooria" nel ritornello di "Viva La Gloria!" e non sai se pensare a Umberto Tozzi o a Van Morrison, poi pensi solo che certe cose è meglio non pensarle) e avrete un quadro più preciso della situazione.
Le canzoni, infine: i singoli di punta sono "Know Your Enemy" (ma dai? Che titolo originale!), un hard-punk cafone da Spring Break che tutto sommato fa la sua figura, e "21 Guns", che dovrebbe essere la nuova "Boulevard Of Broken Dreams"; poi la title track, "Before The Lobotomy" e "East Jesus Nowhere", sul canovaccio di "American Idiot", coi riffoni, i cambi e i saliscendi; rigurgiti punk mai del tutto sopiti in "Murder City", "Horseshoes and Handgranades" (con un giro che sembra preso in prestito dagli ex-rivali Offspring) e "American Eulogy: A Mass Hysteria"; un tentativo abbastanza maldestro di ballata notturna e sofisticata con slide e piano ("Last Night On The Earth"); e, dulcis in fundo, i brani più riusciti: "The Static Age" con più d'un rimando ai Ramones post-"End Of The Century", "Last Of American Girls", che ammicca a modo loro al surf e ai Beach Boys, e "Viva La Gloria? (Little Girl)", contaminazione fra un vaudeville e un saltarello country-punk.
Si butta giù d'un fiato ma non lascia tracce sul palato. Come un bicchiere d'acqua fresca e frizzante in queste calde notti d'estate.
26/07/2009