Oasis: ovvero l'unica band al mondo capace di passare nel giro di pochi anni dall'esser considerata di valore eccelso, nonché erede dei Beatles (!) all'esser considerata la più sopravvalutata della storia del globo dalla caduta dell'impero romano.
Solitamente, in casi del genere la verità sta nel mezzo, anche se ci viene da propendere ampiamente per l'ipotesi che accomuna il valore musicale dei fratelli Gallagher a quello di Nerone suonatore di lira.
Comunque la si voglia vedere, resta difficile negare che dopo il '95 vi sia stato un calo qualitativo e quel poco di buono che avevano realizzato gli Oasis sia andato smarrito.
Questa è in effetti anche la tesi dei Gallagher alla presentazione del penultimo lavoro di studio "Heathen Chemistry".
E proprio quel disco ha rappresentato una svolta nella discografia della band. Con popolarità in netto calo, nel centro del mirino di una critica voltagabbana, Noel Gallagher ha deciso di dar vita a un vero e proprio gruppo (con gli ingressi del chitarrista Gem Archer e del bassista Andy Bell) e di ripulire il suono Oasis da quel muro di rumori e chitarre in sede d'arrangiamento che era culminato nel polpettone "Be Here Now". Ma il risultato, al contrario dei proclami e delle intenzioni, è stato quello di trovarsi dinanzi a un disco infinitamente scipito, forse il peggiore della carriera.
"Don't Believe the Truth", che esce a tre anni di distanza, si presenta come una continuazione nella direzione del lavoro precedente (a tutela della riconoscibilità resta la sola voce di Liam).
Se il singolo "Lyla", lunga cavalcata vagamente blues-rock, va a collocarsi tra i più anonimi della specie, l'album mostra qualche passo in avanti (più nelle intenzioni e nella perizia che nei fatti, in verità). "Turn Up the Sun", opening-track, è forse la cosa più originale (per loro) scritta dagli Oasis (non a caso è di Bell). Su un giro di chitarra dolce e luccicante, Liam declama, con Noel al controcanto, un blues-rock senza mai ricercare la melodia ad effetto, prima che il tutto culmini in un finale strumentale che riprende il tema di inizio brano.
A fare il paio è "The Meaning of Soul" (di Liam), versione manchesteriana di un breve country-punk per battito di mani e armonica. Praticamente sono i pezzi migliori del disco (cui, dovere di cronaca, va aggiunta "Part of Queue", ballata elettrica più classica, ma melodia tra le migliori scritte da Noel da parecchi anni a questa parte).
Che qualcosa sia cambiato in positivo lo lasciano intravedere anche "Mucky Fingers" (palese "omaggio" ai Velvet Underground) e la delicata "Guess God Thinks I'm Abel" (arrangiata e contrappuntata in modo finalmente degno), brani riempitivo e nulla più, ma la cui costruzione rivela una certosina perizia.
Il vero grave problema di "Don't Believe the Truth" è che non c'è altro.
I passi in avanti fatti nei singoli brani sinora descritti si disperdono nella durata dell'intero disco, non accompagnato, purtroppo, dall'ispirazione necessaria per i suoi tre quarti d'ora, bensì solo per un terzo.
Le patetiche "Keep the Dream Alive" (più elettrica) e "Let There Be Love" (più rilassata, con i due Gallagher che si susseguono al canto) sono tra i pezzi peggiori del repertorio, mentre i restanti brani sono, al più, anonimi.
Insomma, come anticipato su, la crescita degli Oasis c'è stata ma più nelle intenzioni.
Vedremo col prossimo lavoro se i passi in avanti compiuti riusciranno a concretizzarsi maggiormente.
Certo, parlare di una band di successo come di un bambino che sta imparando a camminare non è proprio edificante, ma tant'è.