Le note biografiche ci raccontano all'unisono come Paul Weller sia sempre stato un fuoriclasse nel fare figli e nel fare dischi. In questa sede lasciamo giustamente da parte il gossip e ci concentriamo sull'artista, ringalluzziti fin dal primo ascolto di questa sua nuova fatica solista.
Una prima curiosa coincidenza ce la fornisce il titolo stesso: 66 non testimonia solo l'età anagrafica appena raggiunta, ma se ci aggiungiamo malandrini una terza cifra uguale alle prime due andiamo direttamente a parare dalle parti di Belzebù, perché ormai è chiaro che il Modfather deve aver fatto un patto col diavolo, musicalmente parlando.
Non potrebbe essere altrimenti. Il Nostro, infatti, pubblica un disco ogni due anni da quasi cinquant'anni, rimanendo creativo e influente senza mai concedersi nemmeno un pizzico di autoindulgenza - "non sarò mai un artista da museo" come mantra e lascito spirituale - quando molti dei colleghi suoi coetanei sono passati a miglior vita o ben che vada stanno seduti ai giardinetti. Ditemi voi se non siamo di fronte a un qualcosa di diabolico, e chi scrive personalmente non ha più tanti aggettivi a disposizione per narrare di questo genio assoluto, quasi luciferino appunto.
Dopo averci deliziato con rock, soul bianco, R&B, britpop, psichedelia e persino accenni di kraut-rock sparsi a macchia di leopardo nei sedici album precedenti, Paul ha deciso di mettere gli anni Sessanta al centro del villaggio, e così sono le sonorità sixties a prendersi la scena in questi quarantadue minuti di musica ispiratissima.
"66", che vanta l'artwork di Sir Peter Blake, maestro indiscusso della pop art al fianco di Weller già da "Stanley Road" del 1995, è parente stretto di "True Meanings" del 2018, quindi parliamo di un album quasi acustico, riflessivo e intimo (anche nei testi) a tal punto che dei dodici pezzi presenti giusto un paio possono vantare il predominio di sonorità elettriche.
Si rockeggia con delicatezza in "Jumble Queen" col featuring di Noel Gallagher e in "Soul Wandering" insieme a Bobby Gillespie, dove il diavolo si fa angelico e canta la bellezza del creato ("And I want to believe/ In something greater than me/ And I'm humbled by the majesty of the sea/ And the stars and your love").
Tutto il resto è un trionfo di sonorità beatlesiane - l'opener "Ship of Fools" su tutte, con tanto di incedere a marcetta, ma anche "I Woke Up" - ed echi del Nick Drake più ispirato, con "Astral Weeks" di Van Morrison ben presente e immagino suonato in loop in sala di incisione.
Ballad efficacissime e arrangiamenti orchestrali come se piovesse, assoli di flauto disseminati qua e là, un pop barocco sublime e vecchi amici come Dr. Robert con cui scrivere a quattro mani uno degli episodi più commoventi dell'album ("Rise Up Singing").
La chiusura, affidata a "Burn Out", suona perfetta come un mix tra "Abbey Road" e "The Dark Side Of The Moon", raggiungendo in pochi minuti uno space-pop elevatissimo e cosmopolita che ci consegna un Weller in stato di grazia, vicino al suo fulgido zenit.
Quanto è bella questa musica e per quanto tempo ancora avremo l'onore di recensirla?
26/05/2024