Avere una macchina del tempo in certi casi sarebbe un esperimento sociale quantomeno divertente. Per esempio, se ci aggirassimo tra i punk e i mod degli anni Settanta, sbandierando a tutti i fan dei Jam l'immagine di quest'uomo così raffinato in copertina, riconoscerebbero il loro idolo? Perché, ammettiamolo pure ad alta voce: ci sono pochi artisti in circolazione che si sono saputi spingere avanti come ha fatto il Modfather nel corso dei decenni, fino a rendersi quasi irriconoscibile, se non fosse per il suo fedele taglio di capelli. Avulso per genetica a ogni definizione, Weller ha saputo arricchirsi con il passare del tempo, consapevole sin dalla giovinezza che non ha senso distruggere se si può cercare continuamente qualcosa di nuovo (per parafrasare "All Around The World" dei Jam, partorita nell'anno 1977, in cui tutto veniva effettivamente annientato dal ciclone punk). Carismatico leader, in epoche diverse, dei Jam e degli Style Council, con i quali ha saputo marchiare indelebilmente diverse generazioni, Paul Weller è giunto al traguardo dei sessant'anni sperimentando come pochi. Tuttavia, al suo pedigree mancava ancora qualcosa: un album di puro cantautorato, quasi da crooner, impreziosito da elementi orchestrali in grado di far librare la sua voce. Più in linea con alcuni brani composti per la colonna sonora del film "Jawbone" (2017) che con l'ultimo album solista "A Kind Revolution", Paul Weller questa volta ha aperto le porte ai suoi pensieri più intimi e, contemporaneamente, anche ai suoi Black Barn Studios, chiamando a sé veterani di diversa epoca ed estrazione come Rod Argent degli Zombies, Martin Carthy, Lucy Rose, Danny Thompson dei Pentagle e persino Noel Gallagher (il cui contributo, nei fatti, consiste soltanto in due brevi cameo).
Il risultato di "True Meanings" è un disco che attinge alle tendenze dei cantautori folk-rock come Nick Drake e Neil Young, portando nello stesso tempo in dote l'eleganza di Weller e un songwriting decisamente più rilassato e positivo, merito anche della componente orchestrale, capace di fare emergere quella che è la vera protagonista del disco: la sua voce. A dichiarare gli intenti ci pensa già il funk-jazz di "The Soul Searchers", le cui parole sono state scritte da Conor O'Brien dei Villagers. Chitarre acustiche, archi drammatici, persino il suono nefasto dell'organo Hammond suonato da Rod Argent: viene servita così la colonna sonora perfetta per tutti gli esami di coscienza che si fanno al chiarore della luna. Weller scandisce delicatamente ogni sillaba, come fosse parte di una narrazione o di qualche rito propiziatorio: che siano le immagine pastorali di "Glide", decantate a tono basso appena sopra le chitarre acustiche, l'intro glam-rock di "Mayfly" o le ricche orchestrazioni di "Gravity", poco importa. Un filo rosso c'è, spesso sospeso sui contrasti propri dell'animo umano, come è il caso di "Wishing Well" in cui tanto forte è il richiamo verso il Neil Young acustico nelle strofe, quanto la voce di Weller si fa inaspettamamente risoluta sul ritornello, fomentata dalla presenza del vibrafono nel mezzo del brano.
Per il suo quattordicesimo album solista, Weller ci mette tutto se stesso, contraddizioni incluse: dalla poesia erotica di "Come Along" al misticismo harrisoniano di "Books" (con tanto di sitar di Sheema Mukherjee e la breve apparizione dell'harmonium di Noel Gallagher), fino a quello che è l'opus magnum del disco, l'ambiziosa e drammatica "May Love Travel With You", in cui domina l'elemento classico e orchestrale. Sebbene Weller abbia scritto personalmente la maggior parte del repertorio, i numerosi musicisti ospiti lasciano più di uno zampino evidente, che siano i valzer maliziosi di "Old Castles", le disperate cantilene pop-soul di "What Would He Say" e "Movin' On" o il cantautorato puramente british di "Aspects", non a caso scelto come singolo di lancio.
Il fantasma più inaspettato è però quello dell'ex-nemico David Bowie, in un brano riflessivo sulla morte e la vita; un pezzo che sembra provenire da tempi e luoghi remoti, e risulta davvero difficile trattenere le lacrime quando Weller canta: "Do you know there's no journey?/ We're arriving and departing all the time/ You were just mortal like me". Archi e chitarra acustica segnano quella che, di fatto, è la discesa tra i mortali del compianto Major Tom che, al termine di una lunga faida durata fino agli anni Zero, per sancire la pace chiese scherzosamente a Weller di dargli indietro il suo taglio di capelli.
L'album si chiude con il coinvolgimento di Erland Cooper per il testo di "White Horses", che mostra ancora una volta la volontà di Weller di voler ridefinire se stesso attraverso altri punti di vista lontani dalla sua generazione, senza mai tuttavia abbandonare quel linguaggio provocatorio che lo ha sempre contraddistinto. Si tratta di una conclusione perfetta, merito soprattutto del mellotron di Rod Argent capace di inserirsi con gentilezza tra gli archi, gli arpeggi della chitarra e i rintocchi del glockenspiel.
Probabilmente alla fine non sarà l'album più rappresentativo della carriera di Weller, ma di certo - finora - risulta uno dei più intimi e personali. Impeccabile nell'arrangiamento e nella produzione, il Modfather ha saputo regalare un disco che lo ritrae come un raffinatissimo cantautore: e se, come si suol dire, la vita inizia a sessant'anni, Paul Weller dimostra di avere ancora molto da offrire.
15/09/2018