E’ senz’altro difficile oggi, per una nuova cantautrice, emergere da una scena che conta – tra gli States e la vecchia Europa – decine di proposte ogni mese. Bisogna sgomitare un po’, mettere in mostra in misura opportuna una dose di originalità ed una chiara indicazione dei propri modelli (preferibilmente collocati tra la fine dei Sessanta e i primi Settanta) e ovviamente farsi promuovere da navigati uffici stampa come un miracoloso incrocio di Joni Mitchell, Feist e Cat Power (funziona sempre, secondo loro!).
Può darsi che la ventitreenne inglese Lucy Rose Parton, già vocalist dei non irresistibili Bombay Bicycle Club, possieda le doti per sfondare, ma a giudicare dal suo debutto “Like I Used To” dovrà probabilmente mettersi pazientemente in fila. Intendiamoci, Lucy Rose ha buone frecce al suo arco: possiede una voce gradevole, un bell’aspetto e sicure capacità di esecutrice testate dal vivo, scrive canzoni di anima folk e vestito pop con discreta disinvoltura ed ha messo una firma per la Columbia che le garantisce un’esposizione mediatica che tante altre artiste simili possono soltanto sognarsi. Tuttavia non è detto che quelle stesse frecce arrivino tutte a bersaglio.
Le canzoni della fanciulla del Warwickshire, al di là di una piacevole esilità di tocco che potremmo far risalire a una Vashti Bunyan, fanno decisamente la corte tanto a modelli più vicini a lei come Laura Marling e Beth Orton, provando a mettere insieme qualche briciola di anti-folk alla Emmy The Great e le cose meno ruvide di PJ Harvey, aggiungendo poi memorie sparse di Suzanne Vega e le tentazioni mainstream di una Florence + The Machine.
Il risultato oscilla tra ambizioni di eleganza e complessità formale (“Watch Over”, “Don’t You Worry”, “Place” o il singolo “Bikes”, dove la produzione spinge volutamente sull’alternarsi di momenti di nudità vocale/acustica e di raffinati crescendo) ed episodi votati a un più sobrio – e decisamente efficace – intimismo. Mentre in pezzi come “Shiver” e “Night Bus”, pur nella loro piana e confortevole convenzionalità folk, intravediamo se non altro il talento ancora acerbo di una ragazza che sa scrivere, canta con grazia e mostra una malinconica timidezza che la rende interessante, buona parte dell’album – addirittura 15 canzoni nella sua versione deluxe (troppe per qualsiasi esordio!) – risente invece di una confezione eccessivamente pesante che uniforma tutto ad un’idea di pop un po’ algida ed fm-friendly (diciamo la stessa abbracciata in Italia da Elisa), che finisce per togliere personalità anziché potenziarla.
Insomma, tutto è piacevole, tutto molto ben curato dall’inizio alla fine, ma per il momento il rischio che Lucy Rose rimanga nell’anonimato è, ahimè, sicuramente forte.
08/10/2012