Un esordio a cottura davvero lenta, quello della ventiseienne britannica Celeste Epiphany Waite. Una lunga serie di singoli, di Ep e di collaborazioni rilasciata nel corso dell'ultimo lustro - non ultima la mini-raccolta "Compilation 1.1" - le aveva gradualmente creato attorno quell'aura classica ma quirky da tipica soul singer all'inglese: eccola catturata in stilose pose d'antan, e poi da sola di fronte al microfono, intenta a dispiegare una vocalità pastosa e vagamente infantile, ricca di sfumature jazz, blues, soul e quant'altro provenga dalla cultura afroamericana rigorosamente ante-1960.
Non sono certo mancati momenti di classe, ma era evidente che, con una presenza così spudoratamente vintage, Celeste stava puntando verso la fetta più reazionaria del pubblico pagante. Poteva scapparci il disco nato vecchio ma pur sempre personale e ispirato da cima a fondo, come magari ne ha consegnati Lana Del Rey in passato, e invece - complici anche il ritardo dovuto al Covid-19 e la Universal che non le ha tolto il fiato dal collo per un momento - il tanto atteso "Not Your Muse" si presenta più come una playlist maggiorata di luoghi comuni che non come un album dalla genuina vena cantautoriale.
Le coordinate di base si possono indovinare a occhi chiusi, sono quelle di sempre da almeno quindici anni a questa parte; le ombre lunghe di Adele (quasi calligrafiche "Tonight Tonight" e "Tell Me Something I Don't Know") e di un'ancora inimitabile Amy Winehouse ("Love Is Back"), il jump-blues del nume Nina Simone unito al melodismo radiofonico di Paloma Faith (il discretamente famoso singolo "Stop This Flame"), torch song al piano ("Strange") e soffusi lenti acustici a zero fantasia ("Ideal Woman" e "Some Goodbyes Come With Hellos", poste rispettivamente in apertura e chiusura del lavoro, fungono come da sipario). Ma perché diamine, poi, infilare in scaletta anche il tema della campagna pubblicitaria natalizia 2020 inciso per John Lewis & Waitrose, "A Little Love"?
"Not Your Muse" finisce quindi col dare il meglio proprio nei momenti di vintage più remoto, quelli assolutamente non originali ma dove, se non altro, il timbro vocale di Celeste si mette a livello con questi arrangiamenti da dagherrotipo; "Beloved" sembra uscita dal 1920, mentre "The Promise" infila una serie di delicati incastri di exotica che ricordano la prima Cleo Sol. Suggestiva anche la title track, condita da uno sfrigolante arrangiamento psichedelico che non sarebbe fuori posto in un disco di Lianne La Havas ritoccato da Adrian Younge, ma il momento più emotivo lo si tocca con "A Kiss", imperniata su una struggente linea melodica da vecchia chanson ma capace di progredire e crescere di volume assieme all'accorata interpretazione di Celeste.
In linea con la politica a rischio zero dell'attuale panorama discografico, la versione deluxe del disco - che poi è quella più pubblicizzata sia nel merch che in streaming - infila un secondo disco di nove tracce aggiuntive, pescando tra vecchi successi, collaborazioni e B-side per capitalizzare su tutto l'indotto del personaggio-Celeste sponsorizzato fino a oggi.
Vecchi brani già editi sui precedenti Ep (la sua prima hit "Lately" e il disidratato soul notturno di "Both Sides Of The Moon" entrambi co-prodotti con Gotts Street Park, più "Father's Son"), un paio di duetti (lo scoppiettante stacchetto jazzy "It's Alright" con Jon Batiste e la sognante "Unseen" in contrasto col profondo tenore di Lauren Auder) e qualche bonus di contorno (la strimpellata di tropicalia su "In The Summer Of My Life" e la perentoria "Hear My Voice", già impiegata nella colonna sonora di "The Trial Of The Chicago 7"). Un'appendice curiosa e variegata, ma che al contempo annacqua e soprattutto illustra tutti i limiti della proposta originale.
Difficile cestinare in diretta un disco come "Not Your Muse", con i suoi caldi e pacati rimandi a un'era lontana dove tutto sembrava più umano e rassicurante, ma è altrettanto impossibile provare anche solo a stupirsi per una collezione di canzoni talmente reazionarie da far risultare moderno anche il tiepido esordio dell'altra celebre soulsinger britannica Jorja Smith pubblicato qualche anno fa.
La curiosa foto di copertina, che ritrae l'autrice in un bellissimo look pervaso da un'eccentricità quasi queer, finisce con l'essere l'aspetto più misterioso di tutto il progetto. Scoccia dirlo, perché il potenziale c'era tutto, ma per il momento Celeste non è affatto la nuova musa del soul, quanto semmai la continuazione di quella stirpe di cantanti rassicuranti e sempre uguali a sé stesse, da Duffy e Rumer in giù, e il titolo del suo album di debutto ne è tristemente profetico.
02/02/2021