Dopo alcune dichiarazioni di
Damon Albarn (inizialmente coinvolto nel progetto), le voci che il nuovo disco di
Adele fosse fin troppo prevedibile e poco coraggioso hanno iniziato a spargersi velocemente tanto quanto i milioni di copie che questo "25" sta vendendo. Facile giudicare per chi non si è mai trovato nella scomoda posizione di dover bissare il clamoroso successo di un album come "
21".
Perché trenta milioni di copie, in un mercato in cui ormai ne bastano appena due per trionfare, l'hanno reso il degno erede dei record di
Michael Jackson e perché quell'album era perfetto, neanche troppo sorprendentemente, per raggiungere un pubblico così vasto: dagli adolescenti cresciuti in un decennio in cui le ballate erano un radiofonico tabù (e che l'hanno quindi avvertita come un'originalissima anomalia), sino agli adulti, disorientati da un panorama pop sempre più tecnologico e sessualizzato in cui non si riconoscevano più, che hanno invece trovato in lei un confortevole e nostalgico appiglio.
Ma il vero colpaccio di Adele è stato quello di attirare dalla sua parte, complici la sua eccezionale vocalità, mai fine a sé stessa, e un'attitudine vagamente indie, gli schizzinosi appassionati musicofili. Grazie alle irruenti ritmiche di pezzi clamorosi come "Rolling In The Deep" e "Rumour Has It", tanti insospettabili si sono di conseguenza avvicinati a un genere, quello delle melliflue ballad soulful, da loro mai troppo apprezzato e frequentato, anzi spesso e volentieri criticato quando negli anni solo alcune gorgheggianti dive del soul si sono avvicinate, guarda caso, alle imprese milionarie di Jacko.
Stupisce quindi che in "25" questa categoria di ascoltatori, che è stata fondamentale per la sua consacrazione critica ancor prima che commerciale, rischi di rimanere senza specchietti per le allodole, fatta eccezione per un paio di collaborazioni che tendono però a perdersi in un carnet di ospiti e influenze talmente glamorous da fare invidia a un'edizione dei Grammy.
Sin dai primi ascolti dell'ormai onnipresente "Hello" è palese e comprensibile la volontà di far suonare i suoi nuovi ed eleganti lenti come
instant-
classic. Tuttavia la voglia di farcirli il più possibile di classicismo
vintage, di suscitare a tutti i costi il brivido sulla schiena dell'ascoltatore con scientifica meticolosità (esemplare la costruzione di "Love In The Dark") si è tradotta in una perdita di spontaneità, in artificiosa pantomima. Anche quando la penna dietro i brani è di tutto rispetto, come quella del talentuoso
Tobias Jesso Jr.: la potenzialmente bella "When We Were Young" vorrebbe volteggiare leggera e maliconica come una "
Tiny Dancer" ma, per i problemi di cui sopra, finisce purtroppo con l'ingolfarsi.
Paradossalmente scorrono via meno pretenziosi il nuovo pezzo realizzato con Ryan Tedder dei One Republic, che riesce a ritrovare (con la pianistica "Remedy") se non la sostanza, almeno la forma di "Turning Tables" e quello con Bruno Mars. L'hawaiano si fa decisamente meno scrupoli di Albarn, deve aver capito subito l'andazzo e senza girarci intorno le confeziona "All I Ask", un'ideale
power-
ballad per la squillante ugola di Barbra Streisand, il cui ascendente aleggia fin troppo su questo nuovo lavoro. La Adkins strappa invece gli applausi quando, nei panni di novella Doris Day, concede uno spoglio stornello solo voce e chitarra per "Million Years Ago" in cui, una volta tanto, la grazia interpretativa non viene soffocata dal troppo calcato sentimentalismo.
Per spezzare la struggente monotonia e ricordarci che in fondo questo non è l'album di una settantenne, la ventisettene Adele si concede anche delle svisate giovanilistiche in un paio di canzoni. In "Water Under The Bridge", il pezzo più "moderno", va in cerca del battito sinuoso e
sophisti-
pop della conterranea e altrettanto talentuosa
Jessie Ware, ma la sua esuberanza
larger than life le impedisce di donare al pezzo il giusto, raffinato slancio. Si lancia addirittura in una imprevedibile (!?) ma in fin dei conti riuscita
joint-
venture con Max Martin, l'uomo dietro vent'anni di pop milionario a stelle strisce (da
Britney Spears a
Katy Perry). "Send My Love (To Your New Lover)" è un grazioso tribalino che sortisce il curioso effetto di farci immaginare
Paul Simon in gonnella che coverizza un pezzo di
Taylor Swift. Magre consolazioni, ma almeno nei prossimi mesi le emittenti radiofoniche ci daranno un'alternativa alle sue ormai proverbiali romanticherie assortite.
Ai palati più esigenti non resterà quindi che cercare sollazzo in collaborazioni meno patinate. Quella con
Danger Mouse, "River Lea", nonostante il giusto pathos sfocia però in un gospel talmente vetusto e
adult-
oriented che probabilmente persino Billy Joel rifiuterebbe se mai decidesse di dare un seguito al suo fiume dei sogni. Il meglio di "25" arriva però quando il ritrovato (con sollievo) guru dell'indie-rock Paul Epwort la convince finalmente a inasprire i toni nella sabbatica "I Miss You", imparentata coi cupi tormenti di
Florence + The Machine, e soprattutto quando le dà un'impolverata
western in "Sweetest Devotion", ariosa ballata
à-la "
Ruttle And Hum" scelta per sigillare il disco. Non saranno incisive quanto quell'impetuoso brano che trainò "21" al successo, ma almeno stanno lì a ricordarci che Adele potrebbe, e dovrebbe, distanziare le cinguettanti colleghe sui palcoscenici di Las Vegas non soltanto con le sue più emozionanti e calde interpretazioni.
Lo scorso anno, proprio a proposito del suo ultimo album, ci si domandava se la succitata Ware in futuro avrebbe ceduto definitivamente alla lusinghe dei facili applausi generalisti; ecco Adele l'ha senza dubbio preceduta ma senza rinunciare fortunatamente a una confezione realizzata con innegabile classe e cura certosina. E fa bene a giocare la carta della simpaticona della porta accanto nel martellante tour promozionale che la vede impegnata negli studi televisivi anglosassoni, perché in questo momento lei stessa è molto più verace e affascinante delle sue nuove canzoni.
26/11/2015