Inutile negarlo, tra i fruitori di musica dell'era streaming il formato album sta lentamente perdendo d'importanza, portando con sé tutti i decadimenti e i rinnovamenti del caso. Non solo, ma con l'accesso gratuito a giganteschi database digitali contenenti milioni di canzoni, il panorama contemporaneo si è trasformato in uno sconfinato oceano di musica nel quale è fin troppo facile perdersi o decidere direttamente di gettare la spugna. Sia da parte del consumatore che dell'industria e dei musicisti interessati nasce quindi spontanea una domanda comune: come ovviare a tale situazione? Risposta univoca ovviamente non esiste, ma al momento pare che il caro vecchio Extended Play stia (ri)assumendo un ruolo di vitale importanza all'interno del panorama discografico.
Il motivo è tutto sommato semplice: l'Ep è sia un valido punto fermo tramite il quale l'artista può presentare al mondo il proprio operato, che uno snello contenitore di musica più facilmente digeribile per l'ascoltatore interessato a scoprire nuovi artisti. E anche l'industria ha il suo tornaconto, dal momento che l'Ep è meno dispendioso da mettere in piedi e meno ufficiale da promuovere - questione di non poco conto anche per le grandi etichette che li producono, dal momento che con le enormi fratture economiche all'interno dell'industria discografica causate dallo streaming gratuito, arrivare all'album può essere un processo troppo lungo e che non garantisce comunque ritorni sicuri. Meglio quindi andarci cauti e fare le cose passo passo, sostengono alcuni.
Così l'Ep al momento è diventato una tappa quasi forzata per farsi le ossa mentre si raccolgono i consensi necessari per andare avanti, e questo discorso vale soprattutto nel caso di tutti quegli artisti che si muovono al di fuori dalle attuali mode dance-pop da classifica e ambiscono a una qualità non necessariamente "condivisibile". Questa tendenza sta sicuramente dando i suoi frutti nel campo di certo r&b alternativo e delle varianti del vecchio soul riaggiornate per le sempre affamate orecchie del pubblico moderno. Nel corso dell'ultimo paio di decenni i generi in questione si sono trasformati in un esperanto che ha travalicato i confini del terreno americano per andare a spaziare - in questo numero - dalla Cina alla Danimarca e dall'Inghilterra alla Corea, catturando l'amore degli ascoltatori più attenti e creando un microcosmo di nomi in ebollizione i quali - si spera - un giorno riusciranno tutti a fare il grande salto. Senza intenzione di completismo alcuno e senza gerarchia d'importanza, qui sotto raccogliamo alcune uscite degli ultimi mesi che più ci hanno stuzzicato e incuriosito.
Semma - Ribbons & Bows (Fade To Mind)
In un universo parallelo dove accadono solo cose belle, Mariah Carey ha indossato il suo magico strap-on glitterato per mettere incita Kelela, ed è nata una bella bimba di nome Semma. Dal genitore uno, la piccola ha ereditato uno strabiliante dinamismo vocale che le consente di scartare tra i registri e le ottave con la facilità del bere un bicchier d'acqua, mentre il genitore due è meglio responsabile per averle tramandato l'amore per le sonorità elettroniche alternative e uno spiccato intimismo in fase di scrittura. Cresciuta prima a pane e Uk-garage, e poi mandata a studiare a Los Angeles negli studi della Fade To Mind di Kingdom, Semma ha impacchettato uno degli Ep più squisiti dell'anno. Si viaggia con nonchalance dall'incedere marziale dell'introduttiva "Trouble In Paradise" al ritmo spezzettato e punteggiato da minacciosi bassi di velluto di "My Boy", passando poi attraverso una title track che si snoda come un lamento sotto un cielo stellato, e il terapeutico canto di speranza garage-pop di "In Time". Lampante, insomma, il modo in cui estro vocale, produzioni avantgarde e una solida scrittura r&b confluiscano assieme in un prodotto talmente ben impacchettato da farne rimpiangere giusto la breve durata. Menzione di riguardo per l'irresistibile "Bittersweet", con i suoi accenti bollywoodiani e un'interpretazione vocale da brividi che cavalcano su un secco ritmo digitale. In una parola: perfetto. (Pandolfini)
Yerin Baek – Our Love Is Great (JYP)
È recente la notizia che ha visto la cantautrice Yerin Baek abbandonare i blasoni di casa JYP e accasarsi presso la ben più piccola Blue Vinyl, pubblicando in questi giorni il suo primo album “Every Letter I Sent You”. Una scelta coraggiosa, ma necessaria, che complimenta la natura ricercata, a suo modo quasi dimessa, della giovane promessa dell'r&b più sofisticato, firmataria di uno dei migliori momenti del 2019 made in Korea. Trainato da “Maybe It's Not Our Fault” (numero uno nella Gaon Chart), delicato motivo dalle fattezze soul che mette in soffitta ogni accostamento alla ballata strappalacrime grazie al suo beat felpato e a pregevoli florilegi tastieristici, “Our Love Is Great” è Ep dolce e svagato allo stesso tempo, in cui Baek dà prova di una scrittura efficiente, versatile, che si traduce in lineamenti melodici leggeri ma mai evanescenti. Sfumature electro (“Merry And The Witch's Flower”), cesellature acustiche (“Dear My Blue”, interamente interpretata in inglese), aperture reggae (la title track, introdotta da un vellutato preludio jazz) complimentano interpretazioni non propriamente esplosive, sempre puntuali però nel conferire una dimensione di palpabile romanticismo anche al più dimesso dei fraseggi. Oltre la stucchevolezza di tanti balladeer coreani, un disco di incisiva leggerezza. (Karagiannis)
Dua Saleh – Nūr (Against Giants)
Si fa presto a rimanere irretiti da una personalità come quella di Dua Saleh, artista multidisciplinare da quel di Minneapolis (nata però in quel di Kassala, Sudan), coinvolta oltre che con la musica anche nella poesia e nell'attivismo. Con la sua prima prova discografica (“Nūr” significa luce in arabo), l'autrice catalizza immediatamente le attenzioni grazie a un flusso vocale deciso e a un'abilità lirica di spicco e calore, che non teme tematiche spigolose, ma che sa anche cedere il passo a momenti di puro eloquio a-verbale. La produzione, densa, urbana e industrialeggiante (4 dei 5 brani a cura del polivalente concittadino Psymun) non riesce comunque a spostare le vibrazioni del lavoro verso territori hip-hop, consentendo al canto di Saleh di esprimersi in tutto il suo trasporto soul, spesso e volentieri deviato rispetto al canone (il falsetto, quasi a mo' di spiritual solipsista, di “Survival”), pregno però di un'emotività che non molla mai la presa, ma fa valere ogni singola battuta. Un'importante rampa di lancio, per un'artista che potrebbe diventare una futura sensazione. (Karagiannis)
Lexie Liu – 2030 (88rising)
Membro a pieno titolo di 88rising, compagnia produttiva-etichetta discografica-collettivo artistico teso a dare spazio ad artisti asiatici interessati a pubblicare negli States (Joji e Rich Brian i nomi più conosciuti), la sino-americana Lexie Liu è uno dei suoi nomi più peculiari e ambiziosi, autrice di uno dei momenti più felici dell'intero catalogo dell'ancora giovanissima label. Frutto dell'incontro tra culture, di una collisione espressiva che si evidenzia peraltro in un bilinguismo sfoderato con assoluta maestria, “2030” è opera fluida, il cui linguaggio trae le mosse da un composito codice urban, ricoperto però di una patina nebbiosa, a suo modo psichedelica, che non disdegna anche aperture a contesti ben diversi. Dai riverberi mandopop che animano “Hat Trick” alle atmosfere tropicali di “Strange Things”, Liu sa muoversi con agilità senza inciampare in imbarazzanti passi falsi, rendendo proprio l'articolato comparto sonoro. Spiccano nel contesto del disco le modulazioni electro di “Nada”, con una vocalità non lontana dalla Rihanna più patois, e la spazialità trap di “Outta Time”: una comprensione del presente giocata con caratura di musicista scafata, che le frutterà ben più di qualche semplice riconoscimento indie. (Karagiannis)
Joviale - Crisis (Blue Flowers Music)
Yehaiyahan – Under The Moonlight (IdleBeats)
Più un album breve che un effettivo Ep/mini-album, “Under The Moonlight” segna il passaggio della producer cinese ChaCha al suo nome di battesimo e all'adozione di un linguaggio più sfaccettato, da lei stessa definito come “soul cinematico”, in cui l'elettronica individua percorsi più personali, atmosferici, tesi a supportare contorni vocali rarefatti, acquatici, talvolta pure angoscianti, mai privi però di anima e pathos. La title track, supportata da una base tastieristica che pare garage-house liofilizzata, definisce nel modo migliore il concetto, consentendo a Yehaiyahan la stesura di una linea canora dai puliti contorni r&b, perfettamente inserita nel contesto minimalista, ripetitivo, dell'accompagnamento sonoro. “Hold On No More” la avvicina alla ricerca electro di una pioniera quale V V Brown, ammantando il decorso di sfumati accenni percussivi; “Something” è Kelsey Lu in un suadente pullulare di rintocchi sintetici e sospiri a-melodici, “Know U More” offre invece una sponda al bel trip-hop dei tempi che furono, accostandolo a una più moderna strutturazione elettronica. Surreale, denso di una dolce umanità, il nuovo percorso della musicista cinese, per quanto ancora all'inizio (e da lei stessa annunciato come tutt'altro che semplice) rivela già una pasta di prim'ordine. (Karagiannis)