Ci sono dischi che fanno storia a sé e appartengono solo a se stessi. Un universo a parte li caratterizza dalla prima all’ultima nota, in una sorta di incantesimo irripetibile e per certi versi quasi inspiegabile. “What Color Is Love” è uno di questi dischi.
Siamo verso la fine degli anni Sessanta e la musica soul è l’orgoglio dei neri americani. E’ l’anima di un popolo, ciò che più di ogni altra cosa dona calore al suo spirito tanto martoriato nel corso di quegli anni bui ma sempre pieni di speranza. Sul suolo nazionale imperversano sempre più i singoli Motown e l’etichetta di Berry Gordy Jr. è l’Olimpo a cui tendono i maggiori esponenti del fenomeno. Le Supremes di Diana Ross sono già entrate nella leggenda. Marvin Gaye si appresta a cambiare pelle e a non essere più considerato solo un semplice “Love Man”. "I Heard It Through The Grapevine" è già entrata in circolo e il mondo si prepara a conoscere quella che sarà la nuova veste dalla musica soul.
In tutto questo bel marasma di brani “straccia classifiche”, c’è un giovane musicista chicagoiano di nome Terry Callier che se ne sta lì, quasi in disparte, con la sua inseparabile chitarra a tentare di cambiare le coordinate stesse di quella musica, provando a convincere etichette come la Prestige con diversi nastri e a cercare di sedurre la platea con una formula tanto scarna quanto efficace, la quale prevede semplicemente una maggiore dose di folclore e fluorescenza orchestrale a un'accurata e pur sempre mielosa melodia.
L’acerbo e prezioso album d’esordio “The New Folk Sound of Terry Callier” viene di fatto composto nel 1965, ma è dato alle stampe solo tre anni dopo e all’insaputa dello stesso Callier, il quale però decide di lasciare la tanto cercata etichetta di Bob Weinstock, preferendola alla più attenta Cadet Records, già sulle sue tracce da diversi mesi. Il giovane Terry è costretto così a dividersi tra la sua Chicago e New York per una serie di concerti, e non immagina ancora di poter salire un giorno sulla cima più alta della musica soul nella sua accezione più colta.
Arriva il 1972 e il singolo “Ordinary Joe” lancia il secondo album di Callier, dal titolo “Occasional Rain”. Nonostante il discreto successo del brano, il tentativo riesce solo in parte e le vendite non sono quelle sperate in partenza. La musica di Terry Callier è un mix di ricercatezza e accessibilità e la massa dell’epoca, abituata forse fin troppo all’immediatezza della stragrande maggioranza dei singoli Motown, fatica a seguire gli alti percorsi tracciati dal nostro. Occorre ancora tanta pazienza e tanto sacrificio. Callier lo sa e non si dà per vinto. Ma il successo arriverà forse troppo tardi per essere gustato appieno. In quello stesso anno, la Cadet gli concede ulteriore fiducia e arriva dunque quello che oggi è da annoverare tra i più grandi capolavori della musica soul di sempre.
“What Color Is Love” è un’estasi di suoni e dettagli orchestrali raramente così curati e oltremodo raffinati in un disco di musica “soul”. “Rashida” di Jon Lucien rimarrà probabilmente l’unica produzione del periodo per certi versi accostabile alla qui presente opera, sia per accuratezza delle sfumature, sia per eleganza melodica e ritmica e sia per l’ineguagliabile calore “sinfonico” emesso con costanza nei singoli pezzi. La splendida e sensuale foto posta in copertina segnala poi la presenza di un esotismo esteriore e di una recondita espressività riflessiva che esula dai consueti e laccati recinti neri dell’epoca. A Callier bastano tre coriste, un corno francese, un basso, un violino, due chitarre, due bonghi, una batteria e un’arpa per dar vita a uno spettacolo intensamente unico nel suo genere.
L’arpeggio harperiano che introduce “Dancing Girl” è intenso e dimesso. Callier si muove nell’ombra, evoca e implora la celestiale presenza di una ragazza che danza beata nell’oscurità della nostra esistenza; l’atmosfera si surriscalda lentamente, si apre in un afflato orchestrale vagamente jazzy che esplode nel finale, prima di riprendere la strofa iniziale, quasi a voler chiudere un cerchio di passione e ardito candore. Ancor più vibrante e passionale è la successiva “What Color Is Love”. “Is it wrong or is it right? Is it black or is it white? What color is love? Is it here or is it there? Is it really everywhere? What color is love?”: Callier supera le porte del paradiso in punta di piedi e chiede con voce calda e clamorosamente sentita quali siano i colori dell’amore, quale sia la vera distanza che intercorre tra sé stessi e la parte più nobile della propria anima. E’ lontano come una stella? E’ forte come una montagna o profondo come una fontana? Un violino struggente e un’arpa appena accarezzata lo accompagnano in questa sua profonda inquietudine.
L’osannato boogie di “You Goin' Miss Your Candyman” serve poi a riscaldare gli animi. Giro di basso memorabile, tirato e in bella mostra, con i fiati e le pelli a fornire calura ed entusiasmo al trotto ritmico in crescendo. E’ l’anima folcloristica di Terry Callier a invadere gli spazi in un urlo mai strozzato e sempre ben alimentato da un’ugola cocente. Il musicista e l’uomo inseguono sé stessi e il proprio sole. La propria fonte d’energia.
Toni più morbidi e solari introducono invece la dolcissima “Just As Long As We're In Love”, ballad amorosa orchestrata in perfetto stile Motown, così come accade nell’ancor più quieta e pastorale “I'd Rather Be With You”. Mentre attraverso i delicati incastri ritmici di “Ho Tsing Mee (A Song Of The Sun)” Callier sale di tono e pathos con classe suprema, tra impercettibili voli d’arpa e quell’inconfondibile bagliore orchestrale posto con precisione chirurgica sullo sfondo. Il miracolo esaurisce la sua carica divina e si chiude nel migliore dei modi nella conclusiva “You Don’t Care”. E’ praticamente un inno alla vita e alla felicità che Terry Callier vuole donare al mondo intero. Un intenso e rinnovato ottimismo è sospinto in coro da tre angeli e dalle note della sua chitarra, mai più così candida e celeste.
26/05/2013