È stato un quadriennio tutt'altro che semplice per Lily Allen. A dirla tutta, è stato un vero e proprio incubo ad occhi aperti, una fase in cui l'ex-principessa ribelle del pop britannico ha visto la sua vita sgretolarsi davanti ai suoi occhi, con il beneplacito della stampa scandalistica che non le ha dato la benché minima tregua, monitorandone la disgregazione passo passo.
Dipendenze invalidanti, crisi su più fronti, il fallimento del matrimonio con Sam Cooper, gli strascichi dell'aborto avuto anni prima: chiunque avrebbe avuto difficoltà a far fronte a tutto questo, il tutto assume proporzioni gargantuesche quando il soggetto interessato si trova sotto ai riflettori dell'opinione pubblica.
Toccato il fondo non si può che risalire, e la popstress inglese lo fa a modo suo, attraverso “No Shame”, quarto album in carriera attraverso cui ripercorre quanto affrontato nel corso degli anni e con cui coglie l'occasione per togliersi di dosso qualche fastidioso sassolino dalla scarpa, in un flusso lirico di assoluta e incompromissoria sincerità. Se le parole rivestono un ruolo di prim'ordine nell'economia del disco, anche l'assetto sonoro e realizzativo serba non poche sorprese.
Ripudiato totalmente il precedente “Sheezus”, da Allen ritenuto come un lavoro affrettato, pieno di musica che rispondeva soltanto a mere esigenze contrattuali, l'autrice ha covato il suo nuovo disco con la dovuta calma, senza alcuna forma di scadenza, e soprattutto, senza alcuna imposizione da parte di chicchessia. Avvalsasi dell'aiuto di pochi stretti collaboratori (tra i quali compaiono Mark Ronson ed Ezra Koenig dei Vampire Weekend), con “No Shame” firma un lavoro di profonda catarsi musicale, in cui ogni elemento si fa tramite della volontà della sua firmataria, mai come adesso in pieno possesso della sua arte.
In fuga dalle richieste del mainstream, per quanto ancora ben sintonizzata sulle sonorità imperanti degli ultimi anni, la musicista escogita un linguaggio dalla produzione dimessa e dalle costruzioni disadorne, in cui lasciar fluttuare un cantato ovattato e melodie di grande leggerezza, prossime all'impalpabilità. Se si tratta di un modo onesto e alquanto coraggioso per riappropriarsi di se stessa e dei suoi equilibri creativi, nondimeno Allen disperde la carica graffiante dei testi facendo leva su un'estetica sì divergente dalle principali tendenze, tutto sommato però sbiadita e priva di carisma, incapace di sostenere il peso di una simile corazzata lirica. Anche così, si tratta certo di un punto di partenza da cui cominciare a ricostruire qualcosa di valore, a prescindere dai risultati in classifica.
Con un'anima convintamente electropop, libera però di spaziare all'occorrenza in qualunque ambito abbia voglia, “No Shame” è disco di beat felpati e ritmiche accennate, di carezze tropicali e strumenti pastellati, in una tavolozza cromatica che si configura quasi come un'espansione aggiornata al 2018 dell'arioso sound di “It's Not Me, It's You”. È un supporto delicato, che non alza mai i toni anche quando le dinamiche si fanno più concertate e tese (l'hip-hop old-school di “Trigger Bang”, in compagnia dell'amico Giggs; gli slanci emotivi dell'urban pop pianistico di “Everything To Feel Something”), finendo però con l'affossare la sofferta densità tematica dei testi, che non assestano nessuno dei colpi che potrebbero.
Complice anche un utilizzo poco oculato dell'autotune, che spesso ricopre di ulteriore ovatta il timbro già non particolarmente corposo di Allen, anche i momenti più duri e strazianti dell'album si sciolgono come neve al sole, impedendone la reale efficacia comunicativa. L'amaro j'accuse nei confronti del tampinamento mediatico subito per anni si traduce quindi nel debole electro-trap di “Come On Then”, giocato su ostinati fin troppo ossessivi e un'interpretazione priva di mordente. E così i ripensamenti per la fine del suo matrimonio, tema ricorrente dell'album, trovano da un lato il più abusato dei supporti dancehall in circolazione (“What You Waiting For?”), dall'altro echi dream-pop dispersi in strutture tropical-house appena delineate, troppo debosciate per sostenere il fitto tormento del testo (il singolo “Lost My Mind”).
È quasi paradossale, insomma, che nel complesso i momenti più consistenti si osservino nel trittico di ballad posto a metà del disco, la sequenza “Family Man”-“Apples”-“Three” in cui Allen, con l'ausilio di un pianoforte, una chitarra o poco altro, lascia esprimere la propria vulnerabilità senza alcun filtro o appiattimento compositivo. Dolenti e inutili tentativi di pacificazione familiare, prospettive terze volte a esemplificare lo sbilanciato rapporto con i figli, un insistito senso di rimorso senza evidente risoluzione animano un tris di brani che sa trarre forza dalla propria semplicità intrinseca, abbinandola a un'emotività che altrove manca di trapelare. Nel complesso, però, è troppo poco per riscattare tutto quanto il disco.
Indubbiamente utilissimo all'autrice britannica, pronta adesso a rilanciarsi e a chiudere un lunghissimo capitolo oscuro della vita, “No Shame” si rivela, malgrado la straordinaria onestà, un disco povero di coinvolgimento e piuttosto piatto nella resa emotiva, forse l'inghippo peggiore in cui poteva cadere. Una simile maturità testuale resta comunque un eccellente punto d'avvio dal quale ricominciare: il futuro di Lily Allen potrebbe insomma riservare parecchie sorprese.
11/07/2018