La recensione per “Sheezus”, terza fatica nell’ormai lunga ma poco prolifica carriera della londinese, dovrebbe essere una di quelle facili, che si scrivono praticamente da sole: cantante indipendente e intelligente si infiltra nel sistema mainstream americano per criticarlo dall’interno ma usando le stesse armi finisce col rimanere schiacciata e trasformarsi lei stessa nel nemico. E come diretta conseguenza tutti a gridarle contro: “Ipocrita, venduta!”.
Eppure il nemico lo è diventata soprattutto di se stessa a giudicare dalla freddezza con cui sono stati accolti sinora, anche in madrepatria, i tanti singoli estratti per anticipare l’album. Chissà se si è pentita, Lily Allen, soprattutto quando lo scorso novembre vide volare a sorpresa in testa alla classifica britannica la sua delicata cover di “Somewhere Only We Know” dei Keane (realizzata per accompagnare uno spot natalizio e qui recuperata come bonus track) ben sapendo che ciò che avrebbe pubblicato da lì a breve sarebbe stato completamente diverso e che avrebbe probabilmente deluso le attese.
Chi, come il sottoscritto, si aspettava un nuovo album sulla scia del precedente e acclamato “It’s Not Me, It’s You”, squisitamente pop e raffinatissimo nel suo ovattato vestito electro-soft, oppure un ritorno al cockney-sound contaminato e stradaiolo del debutto si sarà sentito un po’ tradito nel constatare che il singolo femminista “Hard Out Here”, gioiosa ode all’autotune in salsa r’n’b/Edm, non era soltanto un ironico e sboccato divertissement, un caso isolato insomma, ma una stilistica dichiarazione d’intenti.
Qualcosa non torna però, non sempre è tutto così semplice. E’ vero in “Sheezus” ci sono diverse concessioni al sound più modaiolo, dalla trap ormai imperante (l’ipnotica title track e “Silver Spoon”) al brostep di una pasticciata “URL Badman”, e le pur irresistibili progressioni di “L8 CMMR” e “Air Balloon” lasciano un retrogusto stupidino in bocca. Tuttavia la verve interpretativa della Allen è intatta, i suoi testi sono ancora (quasi sempre) acuti e, soprattutto, le melodie dell’album sono tutt’altro che da buttare via.
Lo spassoso country elettrificato di “As Long As I Got You” ripete con successo il tiro di “It’s Not Fair” (e ha solo il difetto di suonare un po’ fuori luogo in un disco come questo) mentre ballate mid-tempo come “Take My Place” e la deliziosa “Our Time” non rientrerebbero nella scaletta del suo secondo album solo per via di una produzione vagamente più bombastica. Produzione per la quale non si è affidata al dj di grido, ma a quel Greg Kurstin con cui collabora dall’esordio e che sappiamo essere capace di suoni raffinatissimi (i suoi The Bird And The Bee) e impeccabili (The Shins) - che qui trovano conferma nel new jack swing riveduto e corretto di “Insincerely Yours” e “Close Your Eyes” - ma anche di dar man forte a ruspanti star d’oltreoceano come Pink (con cui la Allen aveva recentemente collaborato, lasciando intendere una simile svolta).
Anche Lily Allen è una popstar, nonostante tutto, e il suo imperfetto “Sheezus” suona esattamente come un disco pop dovrebbe suonare nel 2014, se rischia di scontentare è solo un problema di genere, perché realizzato da qualcuno che si credeva essere indipendente da certe dinamiche mainstream e non perché sia un prodotto scadente.
A ben ascoltare, senza pregiudizi, è probabilmente migliore degli ultimi lavori delle tante colleghe a cui dedica l’evitabile dissing nella title track; chiunque cerchi di portare un po’ di schiettezza e qualità, anche a costo di una leggera spersonalizzazione, in una scena musicale ormai fin troppo asettica dovrebbe essere addirittura ringraziato, non bastonato.
12/05/2014