Il nostro negozio preferito compie 40 anni. Ma non c’è segno di usura nei suoi sofisticati scaffali e tra le sue prelibate specialità. Forse perché è uno di quei dischi senza tempo: un alieno atterrato nelle classifiche del 1985 e tutto sommato sufficientemente estraneo anche ai suoni delle generazioni successive. Certo, il sound scintillante e un po’ plasticato di certe tastiere, qualche sofisticato artificio di produzione e la cura ossessiva degli arrangiamenti ci offrono più di un indizio in direzione 80’s, ma tutto è magicamente sospeso in una bolla, la stessa che, in fondo, racchiude l’intera parabola degli Style Council.
La storia è nota: gettate alle ortiche la nevrastenia mod dei Jam e la rigida dogmaticità del punk, Paul Weller approdava a un nuovo linguaggio sonoro, impastato di soul, jazz, chanson, funk e bossa nova, elaborando con il tastierista Mick Talbot (ex Dexy’s Midnight Runners, The Bureau e Merton Parkas) una visione musicale insieme elegante e radicale. In poche parole: The Style Council. Una vera istituzione dello stile, nella Gran Bretagna inquieta degli Eighties, dilaniata da contraddizioni economiche e scontri sociali sotto la scure di Margaret Thatcher. Ma cosa c’entra la raffinata stilosità del Cappuccino Kid con le lotte dei minatori britannici? Molto più di quanto può sembrare, visto che dietro le confezioni lussuose delle sue canzoni, Weller nasconde testi affilati e rabbiosi, che gridano tutta l’indignazione di una working class che si sente tradita e minacciata.
Ma l’eleganza, quella non si discute. Tanto nelle sonorità quanto nei look, di cui Weller, da vero mod, è sempre stato campione. Gli Style Council si propongono come i capofila del filone "new cool", che comprende altri artisti uniti dalla stessa impostazione pop-soul-jazz quali Sade, Matt Bianco, Working Week ed Everything But The Girl. Tutti cultori della migliore black music, e del cool jazz in particolare, decisi a riportare sugli scudi gli strumenti tradizionali dopo la sbornia sintetica della prima metà del decennio. Fin dal meraviglioso esordio di “Café Bleu”, perfetto mix tra squisite nuance parigine e arguta witnessbritannica, Weller e Talbot non si limitano a proporre un genere in modo calligrafico, ma sfoderano un mix affascinante di influenze, presentandosi come gruppo aperto e propenso alle collaborazioni.
![]() |
Il bazar internazionalista
E aperto è anche l’orizzonte di “Our Favourite Shop”, l’opera seconda, destinata a consolidare e rendere immortale il marchio Style Council ben oltre la sua breve esistenza. Quattordici canzoni che si muovono dentro una tensione continua tra la leggerezza della forma e la gravità dei contenuti, tra la cura ossessiva degli arrangiamenti – fiati Motown, archi cinematografici, ritmi sincopati, armonie calde – e la crudezza di testi che picchiano duro su temi quali alienazione, militarismo, razzismo, revisionismo storico, ipocrisie borghesi, devastazione postindustriale. È un disco militante, ma mai in modo retorico o didascalico.
Fin dalla splendida copertina in bianco e nero, il negozio immaginario che dà il titolo all’album - situato con ogni probabilità dalle parti di Carnaby Street - si fa emblema di una comunità ideale e di una visione del mondo. All’interno dell’emporio dei sogni, i due soci della ditta Style Council appaiono elegantissimi, tra scarpe di vernice, camicie button-down, sgargianti cravatte, completi scuri con pantaloni a sigaretta e paltò, mentre sfogliano riviste e scartano dischi sotto il poster di “Another Country” (1984), il film cult britannico di Marek Kanievska con Rupert Everett e Colin Firth, che divenne un manifesto contro il perbenismo dell’era Thatcher.
Nella collezione di oggetti in bella vista, da buon fan, Weller lascia che a troneggiare siano i Beatles, con la locandina del film “A Hard Day’s Night”, un celebre ritratto di Lennon & McCartney, una chitarra Rickenbacker simile a quelle usate da George Harrison e la copia di una rivista con John e Paul in copertina con i costumi di “Sgt Pepper’s”. Ma a un occhio attento non sfuggiranno anche Otis Redding (stampato su una t-shirt appesa a una gruccia con il volto della modella Twiggy), Alain Delon, Al Green, il calciatore George Best, Greta Garbo e Brigitte Bardot, le cui foto sono appese al muro, oltre a vinili di Small Faces e Isley Brothers. In più, una ricca collezione di libri, in cui si riconoscono, tra gli altri, “1984” di George Orwell, “L’amante di Lady Chatterley” di D. H. Lawrence, un volume dei fratelli Marx, “Prick Up Your Ears” di Joe Orton, “Suedehead” di Richard Allen, “Arms and The Man” di G. B. Shaw, “The Making of the English Working Class” di E. P. Thompson. Una bibliografia in linea con le posizioni progressiste che Weller avrà modo di esprimere in diverse tracce del disco.
Ispirato da Simon Halfon e fotografato da Olly Ball, l’artwork vintage richiama il concept dell’opera: “L’idea originale alla base dell’album è una specie di parallelismo con un negozio in cui sono mescolate le nostre cose preferite, allo stesso modo in cui la nostra musica prende spunto da stili molto diversi”, ha spiegato lo stesso Modfather. E chi non vorrebbe entrare in un negozio così?
Abbattendo tutti i muri
Pubblicato l’8 giugno del 1985 (sul mercato americano con il titolo differente di “Internationalists” e un diverso ordine dei brani in scaletta), con la produzione dello stesso Weller affiancato da Peter Wilson (già al fianco dei Jam), “Our Favourite Shop” porta alla corte degli Style Council una nutrita pattuglia di musicisti che contribuiscono a rendere il suono stratificato e compatto al contempo: Steve White alla batteria, Dee C. Lee al canto, Camille Hinds al basso, altri vocalist, sezioni di fiati e archi. È il senso di un collettivo aperto, come appare il progetto sin dall’inizio, benché con un solo uomo, Paul Weller, saldamente al comando. Un progetto che non mira apertamente alla classifica ma non disdegna di strizzarle l'occhio: così se i singoli “My Ever Changing Moods” e “You’re the Best Thing”, tratti da “Café Bleu”, fecero capolino nella Billboard Hot 100 Usa, “Our Favourite Shop” segnerà l’apice del loro successo commerciale, divenendo l’unico album del gruppo a raggiungere il numero uno nella Uk Chart (per una settimana, a spese di “Brothers In Arms” dei Dire Straits). Merito soprattutto del suo trittico formidabile di singoli: “The Lodgers”, “Boy Who Cried Wolf” e “Walls Come Tumbling Down”.
La meravigliosa voce di Dee C. Lee – che per 11 anni sarà moglie di Weller dandogli anche due figli – illumina con grazia sovrannaturale “The Lodgers”, che fin dal sottotitolo al vetriolo riservato alla Lady di ferro e alle sue origini - “(Or She Was Only A Shopkeeper’s Daughter)” - svela i suoi intenti di denuncia, mettendo alla berlina il classismo e il conformismo della società dell'epoca, con versi come “There's only room for those the same/ Those who play the leeches game/ Don't get settled in this place/ The lodger's terms are in disgrace”. La confezione, invece, è puro piacere deluxe: un soul-r'n'b di scuola Motown, impreziosito da un interludio smooth-jazz sopraffino, con Weller che si unisce al canto in un duetto da applausi.
Non meno memorabile, “Boy Who Cried Wolf” è invece l'apice synth-pop del disco, con l’umbratile – e magnifica - frase melodica delle tastiere di Talbot a incorniciare l'amara parabola di Weller: per il protagonista è troppo tardi, non è più credibile nelle sue promesse all'amata, proprio come il bambino che gridava al lupo: “I need you more each day/ Heaven knows why that it goes that way/ Now it's far too late, an' I've lost this time/ Like the Boy who cried Wolf”. Un ibrido elettro-pop-r'n'b semplicemente irresistibile che mostra il lato più intimista e introspettivo degli Style Council. A suggellare quello più apertamente politico è invece il terzo singolo, “Walls Come Tumbling Down!”, gioioso inno alla solidarietà e alla possibilità di abbattere insieme i muri dell’ingiustizia sociale: tra beat e fiati scintillanti, ancora in duetto con Dee C. Lee, Weller inscena uno scalmanato boogie r’n’b alla Earth Wind & Fire, parente prossimo di quella fortunata “Shout To The Top” tutta archi e piano in serrato corpo a corpo, incisa su 45 giri e inclusa solo nella versione deluxe dell'album. L'invito ad abbattere i muri rientra in quel commovente ottimismo che animava tanti brani degli anni 80 – dagli inni di Bruce Springsteen alla “These Days” dei Rem passando per “Like A Song” degli U2 – quando ancora il rock sembrava in grado di smuovere le coscienze:
Paul Weller:
You don't have to take this crap
You don't have to sit back and relax
Dee C. Lee:
(You can actually try changing it)
Paul Weller:
I know we've always been taught to rely
Upon those in authority
But you never know until you try
How things just might be
Dee C. Lee:
(If we came together so strongly, yeah)
Paul Weller:
Are you gonna try to make this work
Or spend your days down in the dirt
You see things can change
Yes an' walls came a-tumbling down
Quasi una chiusura del cerchio nel segno della speranza, per un album che era partito con la storia della dissoluzione di una comunità operaia, filtrata attraverso vicende familiari, nell'iniziale blues tutto fiati, cori e Hammond di “Homebreakers”. In mezzo, ci sono tutti gli “ever changing moods” di Weller, interprete autentico del malessere infido della propria generazione. Cambi di umori, sì, ma anche di registro e di stili. Si scorre con disinvoltura dalla sinuosa bossanova di “All Gone Away” alla nostalgia sixties di “Come To Milton Keynes”, dallo sferzante “garage-swing” di “Internationalists” all'omaggio alla chanson francese di “Down In The Seine”, dal funky strumentale della title track, con scintillanti Farfisa 70’s in stile Jam, fino a quegli archi beatlesiani di “A Stones Throw Away” che fanno tanto “Eleanor Rigby”.
Un’altalena emotiva che si rispecchia anche nei testi, capaci di spaziare dall’abisso contrito di “A Man Of Great Promise” alla luminosità contagiosa di “Down The Seine” e “Luck”. La prima, dietro l’accompagnamento soffice e il ritmo incalzante, cela la storia di un suicidio: Weller scopre sui necrologi del giornale che un conoscente d’infanzia si è tolto la vita e si chiede se si sarebbe potuto fare qualcosa per impedirlo (“Oh if I could've changed that, then Lord knows I'd do it now/ Oh but there is no going back - And what's done is done forever”) pensando a ciò che quel brillante amico sarebbe potuto diventare (“And I think of what you might have been/ A man of such great promise”). Sul fronte opposto, gli aromi parigini di “Down The Seine” – tra fisarmonica, piano, Hammond e versi in francese – svelano un rapimento sentimentale sulle rive della Senna, mentre l’incalzante “Luck” è quasi un’ode di Weller alla love-story con Dee C. Lee, con i due che si inseguono vocalmente, mostrando tutto il potere salvifico dell’amore.
![]() |
Ma il nocciolo dell'album è politico. E lo sfondo non può non essere quello delle lotte della classe operaia britannica e del suo profondo senso di sradicamento. In questo senso, assieme all'iniziale “Homebreakers”, due canzoni quali “All Gone Away” e “Come To Milton Keynes” formano quasi un trittico tematico. La prima riporta al centro il tema dell’economia che recide i legami sociali e affettivi nelle vecchie comunità. Weller, in particolare, si scaglia contro i piani edilizi che sfigurano il volto dei piccoli centri. Dietro i ritmi da calypso tropicale, le marimbas e i ricami di flauto, il Modfather sfodera tutto il suo sarcasmo più pungente: “Come take a walk upon these hills and see how monetarism kills whole communities even families – there’s nothing left so they’ve all gone away”. Completa il discorso la cruda allegoria post-industrializzazione racchiusa tra i battiti saltellanti e le tastiere liquide di “Come To Milton Keynes”, in cui la facciata di “case deliziose” maschera la disgregazione di intere comunità. Parrebbe quasi di riascoltare l’elogio della vecchia Inghilterra idillica dei Kinks di “Village Green Preservation Society”, se non fosse che Weller ha in mente il ben più attuale dramma dello spopolamento dei villaggi e dell'impoverimento della classe lavoratrice britannica negli anni 80 (“Let us share our insanity/ Go mad together in Community/ Boys on the corner looking for their supper/ Boys round the green looking for some slaughter - We used to chase dreams now we chase the dragon/ Mine is the semi with the Union Jack on”).
Così a farne le spese sono anche i giovani, che perdono le speranze già al compimento della maggiore età, restando “con tutto da perdere”: “With Everything To Lose”. Soul a ritmo di rumba e e proto-acid jazz, tra flauti e fiati soffusi, per un’altra invettiva velenosa contro le discriminazioni: “From the playground to the wasteground/ Hope ends at 17/ Sweeping floors and filling shelves/ Forced into government schemes… No choice or chance for the future/ The rich enjoy less tax/ Dress the girls in pretty pink/ The shit goes to the blacks/ A generation's heart torn out”.
“Internationalists”, poi, è praticamente un inno: nervosi ritmi funk-rock, ottoni, organi Hammond in acido, batteria pulsante, chitarra sghemba e un rabbioso spoken word sputato nel microfono per una chiamata al riarmo morale contro le ingiustizie sociali e il razzismo: “If you believe you have an equal share... If your eyes see deeper than the colour of skin... If you see the mistake in having bosses at all... Rise up now and declare yourself - an internationalist!”. Parole forti già allora ma che oggi, in tempo di orrendi sovranismi, risuonano ancora più potenti: l'internazionalismo è la vera rivoluzione, perché la solidarietà non può avere confini. Un concetto che torna in una veste più spoglia, griffata dagli archi, nella commovente elegia antimilitarista di "A Stones Throw Away", dove Weller passa in rassegna – come ideali stazioni di un via crucis – terre che all'epoca, per ragioni diverse, facevano i conti con l'oppressione: “In Chile, in Poland, Johannesburg, South Yorkshire/ A stones throw away…..now we’re there”. Ma il senso di comunanza ha un costo perché “per la libertà c’è un prezzo, sono teschi rotti e manganelli di cuoio… Ovunque persista l’onestà sentirai lo schiocco di costole rotte”. Parole che, anche queste, risuonano attualissime oggi, quando, mutando i regimi (Russia? Israele? Iran? Fate voi…) i risultati non cambiano.
Così intensa e toccante, “A Stones Throw Away”, che richiede un minuto e mezzo per tirare il fiato, affidato al fervore funk di "The Stand Up Comic's Instructions", quasi un divertissement per allentare la tensione (anche se quella affidata alla voce di Lenny Henry è satira al vetriolo sul razzismo a buon mercato di certa comicità) prima che la successiva “Boy Who Cried Wolf” ci scaraventi di nuovo nel vortice delle emozioni.
Quarant’anni dopo
“Our Favourite Shop” è stato ristampato in versione deluxe nel 2007, con un accurato lavoro di rimasterizzazione e un cd aggiuntivo, nel quale, tolti i remix, i demo e i live, ci piace segnalare la ballata “Ghosts Of Dachau”, che scava nel trauma storico e nella responsabilità della memoria con un tono quasi liturgico, “Whole Point II”, più ritmata ma semiacustica, e il gospel di “(When You) Call Me”, oltre ovviamente alla super-bonus track “Shout To The Top”, presentata in doppia versione - “Usa mix” e “Instrumental”.
Oggi Paul Weller forse sorriderà ricordando il sincero fervore politico di quegli anni, che lo aveva anche spinto, assieme ai colleghi Billy Bragg e Jimmy Somerville, a guidare il Red Wedge, il collettivo filo-laburista che cercava di mobilitare il mondo musicale contro le politiche di Margaret Thatcher. Oggi, che dice di non avere più alcun interesse per la politica, gli sembrerà tutto frutto di un’ingenua euforia giovanile. E forse già allora i suoi “ever changing moods” stavano iniziando a portarlo altrove, visto che, trascinato avanti il progetto Style Council senza troppi entusiasmi per altri due album – “The Cost Of Loving” (1987) e “Confessions Of A Pop Group” (1988) – ben presto avrebbe virato verso una carriera solista in cui quegli spunti sarebbero sì riaffiorati, ma all’insegna di un sound rock, più asciutto e psichedelico. Noi, però, a distanza di quarant'anni anni, continuiamo a tenere un piede fisso dentro il suo vecchio negozio di canzoni sophisti-pop e slogan internazionalisti. Hai visto mai che i muri possano finalmente crollare...
08/06/2025