Scrivere sui Beatles è quanto di più facile e allo stesso tempo più pericoloso possa accadere a un appassionato e onnivoro di musica come il sottoscritto, dichiaratamente registrato al partito di chi li elegge tra gli alfieri del proprio bagaglio musicale.
A differenza di quasi tutte le situazioni culturali cosiddette tranchant, il quartetto di Liverpool non è semplicemente amato o odiato da chi ne giudica le opere. Lo scenario è praticamente infinito; c’è chi li adora, chi li qualifica come la band più sopravvalutata della storia, chi li odia in modo sconsiderato, chi li conosce solo per i brani più famosi e chi predilige quelli più nascosti, definendo non più che piacevoli i veri e propri inni scaturiti dalla loro vena creativa. C’è certamente chi assegna loro un ruolo fondamentale nella storia della musica, persino il più importante, chi sostiene siano stati più rivoluzionari nella prima parte di carriera, quella per così dire beat, che in quella psichedelica e ricercata, di pochi anni successiva.
L’obiettivo di questo articolo non vuole, però, ricadere nell’analisi nuda e cruda di uno dei dischi cardine del pop-rock, che si aggiungerebbe, insieme all’alto tasso di monotonia, ai milioni di altri già redatti e che continueranno a rimpolpare siti, libri e riviste.
Sfruttando l’abbrivio innescato dalla contemporanea pubblicazione della sontuosa versione "Super Deluxe", con il meticoloso restauro apportato da Giles Martin (figlio del grande George) e dal sound engineer Sam Okell, è in me riesploso il sentimento che l’ascolto di “Revolver” generò all’epoca del mio approccio nei suoi confronti.
I Beatles entrarono nella mia vita da ragazzo, intorno ai quindici anni, grazie a una musicassetta C90 registrata da un amico. Come si diceva al tempo, gli chiesi di sdoppiarmi quel disco dalla copertina rossa che gli avevo adocchiato sullo scaffale (la raccolta “1962-1966”), un album che racchiudeva cronologicamente il primo periodo storico del tanto strombazzato quartetto di Liverpool: “Please Please Me”, “I Want To Hold Your Hand”, “Can’t Buy Me Love”, “Help!”, “Yesterday”, tra i tanti altri, tutti pezzi iconici di quella grande stagione della beatlemania.
Addentrandomi negli angoli più nascosti di quel Greatest Hits, avviai un processo di ricerca che mi portò, sempre in perfetta sequenza temporale, a sviscerare tutti i 33 giri dai quali furono estratte gran parte di quelle canzoni.
Il balzano quesito che avanzò nella mia mente, molto strano, lo riconosco, fu quello di capire perché questa raccolta si fermò al 1966 e perché non nel 1965 o nel 1967. La risposta a tale dilemma, almeno per quanto mi riguarda, è contenuta nelle quattordici tracce che costituiscono “Revolver”, il vero spartiacque che nel 1966 segnò la linea di confine tra i primi e i secondi Beatles.
In quei brani è racchiusa tutta la straordinaria maturazione artistica e personale di un quartetto che solo quattro anni prima aveva esordito con “Love Me Do”, brano amorevole e spassoso, ma che nulla poteva minimamente accostare al materiale inserito in “Revolver”, anche a quello, per così dire, più immediato.
Non è certamente la mia figura quella che osa affievolire il peso di monumenti assoluti quali “Abbey Road”, il variegato “The Beales - White Album” o l’osannato “Sgt Pepper's Lonely Hearts Club Band”, ma nessuno potrà mai modificare la personale convinzione che la vera innovazione che apportarono i quattro ragazzi cresciuti sulla riva del fiume Mersey, la più coraggiosa e sperimentale, si perpetrò in questa straordinaria successione di idee, che si raffinarono in un Lp dall’esemplare quanto paradossale copertina in bianco e nero, ideata dall’amico Klaus Voormann e premiata anche con un Grammy.
“Revolver” uscì il 5 agosto del 1966, una manciata di giorni prima dell’ultima esibizione live del gruppo, quel concerto del 29 agosto al Candlestick Park di San Francisco che decretò, fino al celebre “Rooftop Concert” del 1969, lo stop da questo tipo di attività.
Nelle vene dei Fab Four scorreva da qualche tempo sangue intriso di sperimentazione, di strutture armoniche più complesse, una proposta che dal vivo sarebbe stata decisamente poco riproducibile. Il quartetto ebbe modo di approfondire il campo musicale offerto da compositori d’avanguardia come Karlheinz Stockhausen e John Cage, soprattutto grazie a un incontro che Paul McCartney sostenne con il sommo Luciano Berio.
Sebbene la creazione dei nuovi brani fosse, almeno nelle linee portanti, sempre meno il frutto di un impegno collettivo e sempre di più il risultato di ricerche individuali, si era ancora distanti da quella graduale alterazione dei rapporti personali che avrebbe portato, solo quattro anni dopo, all'implosione del gruppo. I Beatles costituivano ancora una formazione coesa, avviata a raggiungere i picchi artistici del biennio '66-'67.
Tuttavia, la loro maturazione personale e artistica li rese consapevoli di aver ormai intrapreso sentieri diversi. Paul McCartney si era tuffato alla scoperta della musica classica e in sperimentazioni di ogni tipo, George Harrison viaggiava verso il misticismo, favorito dall'immersione nella filosofia indiana e dalla musica di Ravi Shankar, John Lennon era concentrato nell'esplorazione e l'espansione dei propri spazi interiori, indotti anche dall'uso dell'acido lisergico, mentre Ringo Starr – il meno coinvolto in questa ricerca di nuovi orizzonti – fungeva da essenziale trait d'union per controbilanciare eventuali forze centrifughe.
Per me fu innamoramento fin dal primo ascolto.
Le caratteristiche di cui sopra sono distinguibili in modo incontrovertibile nella serie di brani che, anche allargando ogni tipo di valutazione alle produzioni successive, incluse quelle soliste, pescano il meglio dal repertorio di ogni autore.
Paul McCartney dipinge uno dei suoi migliori affreschi di sempre nei due minuti di “Eleanor Rigby”, una malinconica storia che tratta il dramma della solitudine, con protagonista proprio la Eleanor del titolo, ragazza pensierosa e intenta a raccogliere da terra il riso lasciato all’esterno di una chiesa dove si è appena concluso un festoso rito di matrimonio. Una situazione da lei tanto desiderata, attesa e purtroppo mai avveratasi, visto il tragico epilogo, il peggiore, la morte, che la sorprese proprio, e non è un caso, tra le mute mura di quella chiesa. Il rito funebre, deserto di partecipanti, fu condotto da Padre McKenzie, un parroco che da anni scrive sermoni che mai nessuno ha ascoltato con reale interesse. Immagini forti, struggenti, rese ancor più toccanti dal colossale arrangiamento per doppia sezione d’archi, amplificato utilizzando dei microfoni da studio che ne hanno accentuato ulteriormente ogni tratto doloroso.
Da questo incipit, si intuisce che le storie scanzonate che prevedevano, solo qualche anno prima, il tenersi per mano felicemente, il volersi bene amorevolmente e tutta una serie di simpatiche (e remunerative) smancerie simili sono definitivamente scomparse. Il pop, da questo momento, non è più un banale adepto della musica cosiddetta colta, ma ne diventa un rivale di assoluto spessore che prova a correre in parallelo.
Ma all’interno dei Beatles, questa smania di novità e di voglia di cercare nuovi itinerari diventa, almeno per il momento, una sana lotta a primeggiare l’uno sull’altro.
George Harrison risponde con la corrosiva ironia dell’opener “Taxman”, che con il suo: “One, Two, Three, Four” d’esordio sembra avvisare l’ascoltatore di tenersi pronto perché sta per partire qualcosa di nuovo ed elettrizzante. Nel brano, George traccia la propria accusa, nemmeno troppo velata, verso il sistema tributario inglese. Il pezzo è stato spesso preso ad esempio, oltre che per lo sviluppo successivo di tutto il movimento psichedelico britannico, come precursore del pop in stile mod e quindi di tutto quel filone punk-rock che ha poi assunto larghi tratti di quelle fisionomie.
Che dire poi di John Lennon che sforna una delle gemme seminali di tutta la cultura psichedelica, quella “Tomorrow Never Knows” che rappresentò il più alto livello d’innovazione mai prodotto dai Beatles - e non solo da loro - fino a quel momento. Scritta da John dopo un viaggio allucinogeno seguito dalla lettura del libro “The Psychedelic Experience” di Timothy Leary, “Tomorrow Never Knows” è una traversata di circa quattro minuti caratterizzata da una serie infinita di fattori inediti. L'ipnotica batteria rallentata del sempre troppo sottovalutato Ringo Starr, la voce di Lennon raddoppiata nella prima metà della canzone grazie al double tracking automatico - inventato proprio in quei giorni ad Abbey Road - e passata, per la seconda metà, attraverso l'altoparlante rotativo dell'apparecchio Leslie di un organo Hammond, per accontentare la richiesta di Lennon di suonare "come la voce del Dalai Lama insieme a migliaia di monaci tibetani salmodianti sulla vetta di una montagna", ma soprattutto dai tape loop, tratti di nastro magnetico incisi e giuntati ad anello per dare origine a un segnale continuamente ciclico, situazione mai utilizzata prima d’allora nella musica pop, oltre a stravaganti effetti sonori di gabbiano/pellerossa creati elaborando una risata di Paul, un accordo orchestrale in Si bemolle maggiore, un mellotron suonato col registro del flauto e un altro mellotron suonato col registro degli archi e una scala ascendente di sitar, formano un insieme inesauribile di soluzioni che avrebbero lasciato di stucco anche il più freddo dei beneficiari.
Ma l’eccellenza di “Revolver” non si esaurisce affatto qui.
La sbalorditiva capacità di McCartney nel creare ballate introverse dalla melodia irripetibile (la suprema “For No One”, con clavicembalo e corno francese a volteggiare nell’aria all’infinito i versi di un amore spezzato e l’immaginifica “Here, There And Everywhere”), come capitoli d’inusitato fulgore (“Good Day Sunshine”), misti a raffinate sperimentazioni in stile Motown (“Got To Get You Into My Life”), è affiancata dall’esuberante verve di Lennon, sempre in prima linea quando si tratta di lasciare un segno marcato della propria inesauribile genialità cantautorale (la controversa figura di “Doctor Robert”, che sembra avere una soluzione a tutti i problemi, la trascinante “And Your Bird Can Sing”, la caleidoscopica invettiva di “She Said She Said” e i sopori lisergici di “I’m Only Sleeping”, con le note di chitarra registrate su nastro e poi riprodotte al contrario).
Harrison, che ormai stava emergendo in modo incontrastato dalle immeritate retrovie cui era stato relegato finora, era da qualche tempo travolto dalla cultura e dalla musica indiana, come documentato dalla sfavillante “Love You Too”, capeggiata dall’amato sitar (strumento che aveva già fatto capolino in “Rubber Soul” con “Norwegian Wood”), assoluto protagonista nel traghettare l’ascoltatore all’interno del patrimonio intellettuale orientale e, per volere dell’artista, focalizzato sull’evidenziare le profonde differenze con quello occidentale trainato dal consumismo. Le affascinanti irregolarità che contraddistinguono “I Want To Tell You”, uno dei brani più atipici scaturiti dalla penna di Harrison, nascondono l’infingarda costruzione tecnica basata su schemi che persino McCartney definì tra i più complessi sui quali gli sia mai capitato di lavorare.
I più attenti staranno pensando, e “Yellow Submarine”? Ebbene, insieme a questo menu pantagruelico, sembra quasi uno scherzo discorrere di un brano all’apparenza semplice, divertente, di fama senza precedenti, ma la realtà e leggermente diversa.
Scritta principalmente da Paul e cantata da Ringo, perché ritenuta non troppo ardua da interpretare e quindi perfetta per coprire la quota delle fan del nasuto batterista, “Yellow Submarine” è perfetta nelle sue colorate vestigia per partecipare con velleità all’appuntamento, zeppa di strampalati effetti sonori e dai contenuti soltanto apparentemente rivolti a un pubblico di verde età.
Nella pubblicazione originale dell'epoca non compaiono (colpevolmente) due brani pubblicati solo su singolo qualche mese prima dell’uscita di “Revolver”, ma qualificati dallo stesso spessore e soprattutto provenienti dalle medesime sessioni creative, a dire il vero prassi abbastanza consolidata per mantenere vivo anche il florido mercato dei 7".
“Paperback Writer” e “Rain” costituirono uno dei 45 giri più considerevoli di quel periodo storico.
Ormai affrancati, come detto, dalla necessità di rappresentare storielline sentimentali, i Beatles sfornano nel lato A un brano epocale e di grande successo che analizza le accorate paure di uno scrittore di tascabili che teme di non essere letto e apprezzato. Dal punto di vista musicale, il pezzo è impostato sul rapporto chitarra/basso Rickenbacker, mai posto prima d’ora così in evidenza (l’attacco è davvero poderoso).
Il lato B del singolo è completato da uno dei “retri” più riusciti di tutti i tempi, sicuramente il migliore dei Fab Four. In “Rain” la mente psichedelica di Lennon non raffigura il sole e la pioggia come meri fenomeni meteorologici, ma come situazioni metafisiche testate in uno stato cognitivo contaminato. Il brano ritrae la condizione mentale nella quale l’individuo prova il quieto abbandono all’interno di un habitat onirico e confortevole. “Rain” è anche una delle prime canzoni pop a comunicare la netta demarcazione tra i seguaci della rivoluzione psichedelica tracciata da Timothy Leary e il materialismo culturale dei conservatori. E’ in queste testimonianze che il gap generazionale formatosi nel dopoguerra acquisisce quel significato filosofico che presto avrebbe conquistato l'immaginazione della gioventù occidentale.
A livello musicale un peso significativo è costituito dagli accorgimenti tecnici che furono impiegati durante le registrazioni. Oltre alle tecniche utilizzate per incidere il basso – spostando l'altoparlante di fronte allo strumento e utilizzandolo come microfono (stratagemma utilizzato anche per “Paperback Writer”), la base ritmica venne registrata a velocità accelerata e poi, in sede di riproduzione, fu rallentata così da fare assumere al brano un'atmosfera sospesa, stordita. Infine, nella dissolvenza, si sente un nastro scorrere al contrario che non si è mai capito se si trattasse di un fortunatissimo incidente oppure di una scelta deliberata, anche perché sia Lennon che George Martin, ognuno citando i propri ricordi, rivendicarono con forza la paternità di quell'innovazione.
Eccolo qui, proprio George Martin, il celeberrimo “quinto Beatle”.
In questo quadro, non si dimentichi l’importanza fondamentale di questa figura, che guidò i Beatles dalla plancia dei comandi per settimane, con grande pazienza, e che si rivelò per l’ennesima volta un arrangiatore di competenza illimitata. Le innovazioni previste in “Revolver”, anche solo pescando dal novero a titolo esemplificativo le armonie vocali, divennero presto un riferimento e misero in severa difficoltà artisti del calibro di Brian Wilson dei Beach Boys, che a causa di queste novità innescò un importante, quanto sfidante, duello artistico tra i due gruppi, che li vide sforzarsi nell’imporsi gli uni sugli altri, a botte di dischi di caratura mondiale quali “Pet Sounds” e “Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band”.
A onore del vero, anche Paul McCartney ha più volte riconosciuto pubblicamente la grande influenza che i Beach Boys di quel periodo ebbero, a loro volta, sulle decisioni artistiche dei Beatles, a chiara testimonianza di quanto tutti fossero attenti, rispettosi e riconoscenti, delle continue originalità stilistiche scaturite da menti di altissimo calibro come quelle menzionate, tra le tante, che si farebbe notte a elencarle tutte.
Se è vero che i Beatles sono stati tra i capostipiti della trasformazione musicale e culturale dell’epoca moderna, “Revolver” è una delle pietre più imponenti che ne hanno costituito le fondamenta. Dopo la rivoluzione imposta da questo album, i Beatles, la musica in generale, non sono più stati quelli di prima e, nel mio piccolo, la stessa cosa vale anche per la personale percezione di come si dovesse vivere un prodotto discografico.
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