Jimmy è sull'orlo di una enorme roccia, di notte. Su di lui cade la pioggia, che si confonde tra le lacrime. Sotto di lui il mare ribolle, aspettando impaziente che Jimmy si decida una volta per tutte. E così, con un piede nel vuoto, iniziano a tornare alla mente i ricordi di una vita, tra amori e fallimenti, famiglie e sogni infranti e infinite frustrazioni. E un'unica preghiera: "Amore, regna su di me".
"The story is set on a rock", ci dice infatti Pete Townshend, che in quel periodo della vita - tra alcolismo, deliri di onnipotenza e complessi di inferiorità, tra i tour infiniti e la famiglia in crisi - si trova a ripensare alla sua adolescenza e a tutto quello che ha, diventato ormai adulto. Questo perché, nonostante il successo di "Who's Next", Townshend non era soddisfatto: se capolavori come "Baba O'Riley" e "Won't Get Fooled Again" erano pronti per diventare inni da stadio da urlare in coro per i decenni a seguire, "Who's Next" era invece un fallimento. No, non fraintendete: l'album era infatti un compromesso con la megalitica idea originaria, il disperato tentativo di portare a termine "Lifehouse", l'opera rock che avrebbe dovuto dare senso alla filosofia mistica di Townshend, al Rock come forma artistica e alla Musica tutta, per unire per sempre musicista e pubblico in una one note senza fine. Ma quel disco, che sarebbe dovuto diventare un film, non poteva essere realizzato (se non in una raccolta a posteriori all'inizio del millennio), perché le utopie di Townshend potevano solo restare tali. E non si concretizzò neppure "Rock Is Dead", ideale progetto di autocelebrazione in musica, di cui ci rimane solo il singolo omonimo.
Townshend voleva esplorare ancora il formato opera rock, in fondo lo aveva creato lui. Capisce che è tempo di tirare le somme, semplificare il processo, scavare dentro di sé e parlare col cuore. Stavolta non ci sarebbero stati ragazzi ciechi, sordi e muti né flipper. Bisognava tornare alla vita vissuta, abbandonando la parabola e abbracciando la Storia: torna allora con la mente a dieci anni prima, agli ascolti che lo hanno formato, alle dancehall mod e agli scontri coi rocker (che non ha mai fatto, in realtà). Insomma, a quando gli Who, il loro pubblico e la musica rock erano giovani.
È da qui che si muove la storia raccontata in "Quadrophenia", quella di un ragazzo a metà degli anni 60 che cerca la sua identità, persa e scomposta in quattro diverse personalità. Ecco allora comparire Jimmy, "quadrofenico" ragazzo londinese che vive le mode del momento e cerca di superare l'adolescenza per diventare un uomo. Mod contro i rocker, in perpetuo struggle contro il mondo, il lavoro, la famiglia, la cui vita è frammentata nelle quattro personalità che ne controllano gli impulsi (auto)distruttivi, ognuna delle quali rappresenta un membro degli Who: c'è il ribelle impotente, raccontato in "Helpless Dancer", che ha i contorni di Roger Daltrey; l'impuro folle "Bell Boy", che ha la voce di Moon the Loon; il romantico inconsolabile che emerge nei deliri di "Doctor Jimmy & Mr Jim", chiedendosi se "Is it me, for a moment?" e ha negli occhi il riflesso di John "Thunderfinger" Entwistle. E infine, quando tutta l'esistenza del protagonista crolla miseramente e quel piede dondola nel vuoto, il cuore e l'anima di Pete Townshend diventano l'urlo di Jimmy "the beggar, the hypocrite" in "Love, Reign O'er Me".
In "Quadrophenia" c'è la storia degli Who e di una generazione, ma soprattutto ci sono il talento e la sincerità di Townshend, che scrive in solitudine i brani - musica e testo - produce il disco e canta nei momenti più intimi, quando personaggio e autore si (con)fondono. È, essenzialmente, il suo disco, mentre gli altri della band sono tenuti rigidamente a bada (sentitevi le demo fatte in casa Townshend, praticamente perfette), con Moon ed Entwistle imbrigliati nelle ferree partiture.
La grandezza del disco sta nell'incredibile palette emotiva presentata, nelle tantissime sfumature che rendono il personaggio di Jimmy reale: la sconsolata incuria di "The Real Me", la rabbia senza sfoghi di "I've Had Enough" e "The Punk And The Godfather" (che vede Townshend cantare in prima persona il fallimento del rock come viatico per salvare le persone) e l'insostenibile malinconia di "Sea And Sand" e "I'm One", dove "every year is the same, and I feel it again: I'm a loser, no chance to win".
"Quadrophenia" diventa al contempo un back-to-basics e un incredibile passo avanti nel sound del gruppo. L'esperimento quadrofonico (nelle intenzioni, un canale per ogni tema e per ogni personalità) è un ritorno alla formula rock'n'roll ("Drowned", "5:15") e un tripudio di sintetizzatori, che spingono l'album tra i capolavori dell'art-rock, specialmente grazie all'overture e all'underture "Quadrophenia" e "The Rock": proprio in quest'ultima i leit-motiv delle quattro personalità, e quindi dei quattro Who, si fondono contrappuntisticamente nel finale in un unico movimento musicale, capace da solo di dimostrare l'impareggiabile maestria di Townshend. È il passaggio emotivo che ci conduce a "Love, Reign O'er Me", dove il riff di sintetizzatori prende il posto del delicato intro di piano fino all'esplosivo assolo di chitarra, prima di chiudere il tutto in un unico, immenso accordo minore che ci accompagna al silenzio. Forse il momento più intenso della discografia della band inglese.
Nell'urlo dilaniante di Daltrey, che chiude il disco, è sospeso il destino di Jimmy: si lancerà o affronterà la vita nonostante i continui fallimenti? A ciascuno di noi il compito di immedesimarci e scrivere il nostro personale finale.
Un tale tour de force musicale ed emotivo lascerà un Pete Townshend esausto, riverso nel suo alcolismo e in preda a una depressione che segnerà inevitabilmente la sua vita e il resto della carriera della band, ulteriormente compromessa - e stavolta definitivamente - dalla scomparsa di Keith Moon cinque anni dopo.
Ma "Quadrophenia", pur essendo un disco sfortunato, mai entrato appieno nell'immaginario collettivo, bypassato perfino dalle sigle di CSI, rimane senza dubbio il progetto preferito di Townshend, che tornerà ciclicamente su questo lavoro, prima in forma di film (1979), poi nei vari tour celebrativi, fino alla consacrazione orchestrale del "Classic Quadrophenia" (2015) e il cui unico rimpianto a riguardo sarà di non aver aspettato le giuste tecnologie per presentarlo dignitosamente dal vivo.
È infatti in questo lavoro che gli Who realizzano la perfetta sintesi di punk e art-rock, power chords e synth, preghiera e rabbia giovanile, straight to face sound e ricerca sonora, Vita e Morte. "Quadrophenia" è un romanzo di formazione in musica, un esperimento musicale in formato-canzone, un'esperienza senza precedenti e - ovviamente - senza paragoni.
01/01/2017