Sempre lo stesso, ogni volta diverso: non c'è altro modo per dare conto della sensazione di "rassicurante insicurezza" che accompagna l'ascolto dell'intera opera di Robert Wyatt, l'imprevedibilità delle invenzioni unita a un trademark sonoro che è impossibile confondere con qualsiasi cosa d'altro.
"Different Every Time" è una raccolta complementare alla biografia autorizzata di Marcus O'Dair, recentemente pubblicata nel Regno Unito. Ma se un libro può raccontare per filo e per segno la cronologia di un'intera vita in musica, lo stesso non si può dire di una raccolta (pur non esigua) di singoli brani, astratti dal loro contesto originario affinché colgano parzialmente l'essenza di un gigante come Wyatt. Va dunque chiarito che questo non è e non può esserne un best of, ma semplicemente un doppio disco che ne rappresenti ritratto e autoritratto, per quanto forse abbozzati o addirittura prematuri.
La scelta dei brani da parte di Wyatt - l'ex machina che dà il titolo al primo disco - è tutt'altro che scontata, pescando anche tra materiale d'archivio e b-side, e vede inaugurare la scaletta con il suo primo capolavoro assieme ai Soft Machine: "Moon In June", manifesto-patchwork - tra canzone e jam session - di quel Canterbury sound in cui Wyatt primeggiò sino alla rinascita di "Rock Bottom" (in proposito, sorprenderà più d'uno l'assenza dell'arcinota "Sea Song" in favore di una versione live di "A Last Straw").
L'arco temporale della selezione copre l'intero iter artistico del Nostro, passando anche dai Matching Mole - la meta-canzone "Signed Curtain" e "God Song", tra i suoi testi più geniali di sempre - sino al recente terzetto di jazz classico con Gilad Atzmon e Ros Stephen (la romantica "Just As You Are"). Una collana di perle autentiche ma modeste che mettono in evidenza lo sviluppo irregolare della sua ironica vena poetica, da sempre in bilico tra il gioco infantile e la dolcezza di un amante attempato - complici l'accento british e l'inimitabile tonalità acuta e placida. Dagli arrangiamenti emerge la predilezione di lunga data per gli strumenti a fiato e la più morbida effettistica per tastiere: una dimensione onirica che anche lo stesso Wyatt ha associato al primitivismo naif di Joan Miró, "dove tutti gli apparenti elementi di mestiere vengono gradualmente scartati fino a ottenere soltanto una sorta di scarabocchio geroglifico e infantile col quale si era cominciato". *
Il secondo disco, d'altra parte, raccoglie rare collaborazioni fra il barbuto songwriter e artisti internazionali d'alto profilo, disseminate in altrettanti album, Ep, 7" e raccolte esoteriche. Vengono definite "dittature benigne", concetto che si può forse esemplificare nel testo di un classico da "Shleep": Given free will but within certain limitations/ I cannot will myself to limitless mutations/ I cannot know what I would be if I were not me/ I can only guess me.
Dunque un campionario molto più vario e colorato, testimone della generosità e della vocazione autenticamente world di Wyatt: già soltanto nella lunga "Venceremos" il viaggio musicale si estende da São Paulo all'Africa tribale, ma si fa tappa anche presso la chanson - un tributo alla lingua più "carina" - e il canto revolucionario ("Frontera", assieme al chitarrista di origini sudamericane Phil Manzanera), approdando persino a una distaccata incursione filo-wave in compagnia del floydiano Nick Mason ("Siam", annata 1981).
Degne di nota anche "The Diver", costruita sulle note di un suadente contrabbasso unito all'ancor più calda voce di Anja Garbarek, le estroverse sinfoniette con gli Hot Chip e Mike Mantler - dalle parti dell'iper-decorativo Owen Pallett - e "Turn Things Upside Down", sostenuta da una big band zappiana in trasferta a Broadway; citiamo volentieri anche la suggestiva "Goccia" in duetto con la nostra Cristina Donà, in perfetta sintonia con le atmosfere wyattiane; da ultimo troviamo persino il canto solitario da un testo di e.e. cummings, messo in musica da John Cage. Peccato che nel concept non abbia trovato spazio la cover gioiello "Del Mondo" (da "Comicopera", a sua volta in prestito dal Csi) cantata dall'angelica Irène Jacob nel disco dell'Orchestre National de Jazz.
"Different Every Time" si colloca in coda a una serie di ossequiosi omaggi a un musicista d'importanza capitale, che il prossimo gennaio spegnerà settanta candeline. In un periodo logicamente più parco di pubblicazioni inedite ci rimane se non altro il gusto di un'intrigante, nostalgica riscoperta grazie a raccolte come questa. Se amate Robert Wyatt, per il momento, non potete chiedere di meglio.
* Da un'intervista rilasciata a Dream Magazine, 2005.
26/11/2014