Con la maestosa e ipnotica malinconia di "Storm Is Coming" si apre il nuovo lavoro di Ed Harcourt, il terzo in carriera.
Non ci potrebbe essere incipit più coinvolgente: un effluvio di elettricità e melodia, con chitarre e piano a intarsiare una ballata epica, resa emozionante da un'ottima prova vocale.
Nell'aria sono palpabili gli spiriti guida dei Radiohead e della triade Starsailor-Travis-Coldplay, britannici alfieri di quel pop/rock rarefatto e trasognato così affine alla sensibilità di Ed.
Registrato nella silenziosa quiete di uno studio immerso nei boschi svedesi, "Strangers" potrebbe essere l'album della consacrazione definitiva del ventisettenne, dopo due album e un Ep che lo vedevano relegato a figura di culto e nulla più.
Rispetto ai dischi precedenti, qui c'è più immediatezza pop: ritornelli, belle melodie facilmente cantabili, un'aria serena e ottimista che permea ogni brano. L'amore ritrovato (l'album è dedicato a una misteriosa "foxy lady") sembra essere la chiave di volta che veicola questa straripante sincerità. I fragili momenti noir cui Harcourt ci aveva abituato non mancano, ma hanno minor spazio rispetto a un quadro generale nel quale il seducente sole della speranza lava via molti fantasmi.
Harcourt ha lavorato al nuovo disco in un clima intimo e confidenziale: soltanto i due produttori polistrumentisti Jari Haapalainen (chitarre, basso, batteria, percussioni) e Hadrian Garrard (tromba, percussioni, cori) hanno preso parte attiva e determinante alle session. Tutto il resto è stato affidato all'estro di Ed, a suo agio tra pianoforte, tastiere, organo, basso, cori e chitarre.
Più che Tom Waits e Nick Cave (ai quali il cantautore inglese è stato spesso avvicinato) tra le righe di "Strangers" affiora la romantica, fragile sensibilità del compianto Jeff Buckley, la sua vulnerabilità dolce e amara allo stesso tempo. Basti ascoltare l'organo a canne all'inizio di "Something To Live For", o le scosse chitarristiche di "Let Love Not Weigh Me Down" per essere percorsi da un brivido che credevamo spento, come brace addormentata in attesa d'altro fuoco. E' una delle rare occasioni in cui scomodare un nome pesante come quello del genio americano non suona come una bestemmia. "The Trapdoor" poi, con quella chitarra acustica solitaria doppiata da soffici accordi jazzy di elettrica, sarebbe piaciuta anche a papà Tim Buckley.
L'incredibile peculiarità di Ed sta nel mettersi a nudo senza il minimo imbarazzo e senza risultare banale. Ci mostra tutto se stesso, apre all'ascoltatore la stanza dei segreti con una semplicità e un candore da vecchio amico ritrovato. Nei due singoli finora pubblicati, il trascinante up-tempo autobiografico "Born In The '70s" e la tenerissima "This One's For You", notiamo alcuni indizi di questa predisposizione alla confidenza: versi come "My heart is on it's sleeve" o "My parents named me Ed/I tried my best to smile" non passano certo inosservati.
Complimenti, quindi, a Harcourt, che si conferma uno dei più interessanti cantautori inglesi contemporanei, giovane ragazzo/poeta fatalmente ubriaco di sentimenti. E soprattutto capace di coinvolgere con un songwriting pop d'alta caratura, eclettico senza esagerare, scorrevole senza risultare scontato. Un album luminoso che sarebbe imperdibile, se non fosse per quel paio di brani che abbassano l'ottimo livello generale.
18/12/2006