Storia vecchia: il significato di un disco giace spesso e volentieri nel titolo. Ebbene, la verità nascosta in due soluzioni contrapposte, e che a sua volta non consente soluzione univoca (dal greco: "Aporia"), è di fatto il senso dell’operazione in questione.
Realizzato in collaborazione con il patrigno Lowell Brams - già, quel Lowell del tanto celebrato “Carrie & Lowell”- “Aporia” si presenta fin da subito come un insolito duetto, per l’esattezza il secondo appuntamento tra i due dopo i fasti di “Music For Insomnia” della Library Catalogue del 2009, Lp uscito ovviamente per la label fondata da entrambi, la benemerita Asthmatic Kitty, e per giunta creato niente di meno che con la collaborazione di Bryce Dessner dei National.
Al netto delle presentazioni di circostanza, veniamo subito al dunque: il disco è stato registrato nel corso degli ultimi anni, per la precisione nel tempo libero. Modalità precisata in sede di presentazione dallo stesso Sufjan Stevens. L’opera non ha quindi alcuna ambizione di fondo. Nessuna velleità da traino, se non quella di provare a unire l’immaginazione dei due musicisti, sfruttando la passione di entrambi per la new age (!) dei primi anni 80.
Certo, le influenze dichiarate sono Boards Of Canada e dintorni, quindi epopea postuma, addirittura Enya, fino a giungere alla soundtrack di “Blade Runner” di Vangelis, ossia il vero faro di tutta la faccenda assieme alle ipnosi pastorali di Joanna Brouk e della premiata ditta Peter Mergener/Michael Weisser nel capolavoro “Beam-Scape": progressive eletronic caduta nel cielo teutonico del 1984 e incredibilmente dimenticata.
Ascoltando i vari momenti, è per l'appunto nelle fughe in apparenza sconclusionate della primissima new age “occidentale” che si nascondono i paralleli effettivi di un album che si snoda continuamente tra una lenta ascesa cosmica in scia Tangerine Dream (“What It Takes”) e un battito Idm alternato a una tastiera epica, eppure spiritualmente kitsch per l’assolo sospeso tra le pause ("Disinheritance"). Mentre qualcosa a metà tra l’Aphex selettivo che tutti conosciamo e la Ciani de “The Velocity Of Love” plachi le acque, a dire il vero per nulla agitate, prima che il secondo tentativo di ascesi siderale prenda “quota”, raggiungendo però cime basse, quantificate da ripartizioni stucchevoli e giretti melodici inconsistenti. Ecco: “Agathon” piacerà ai neofiti, per dirla in breve: a quelli che, per una ragione o per un’altra, non hanno ancora scavato nell’elettronica progressiva a cavallo tra gli 80 e i 90.
Tra un mini-trip al synth, un timido riverbero e qualche rumorino da contorno ai soliti sfarfallii in loop anestetico (“Afterworld Alliance”), si procede con estrema fatica. Il centro del piatto nasconde, invece, quella voglia di creare “rumore” certamente inflazionata, ma che presenta qui e là impercettibili squarci di luce, con l’immancabile tastiera celeste in controluce al “tempo” (“For Raymond Scott”, “Matronymic”).
In coda nulla muta, e la sensazione rimane quella di trovarsi dinanzi a un’improvvisazione mal riuscita. Un puzzle di esperimenti contrastanti che, bontà di Dio, nulla aggiungono al pallottoliere della stella “indie” statunitense.
Tirando le somme, non resta che far finta di niente e attendere l’atteso rientro cantautorale di Stevens. E non si venga a dire che momenti come “Climb That Mountain” meritino di più: in fondo, non costituiscono nient’altro che un'inconsapevole scintilla in 43 minuti di sostanziale evanescenza.
04/04/2020