Sufjan Stevens è stato rapito dagli alieni. O almeno, così dice in uno dei racconti che accompagnano il suo nuovo album, "Javelin". "Stavo facendo un giro al centro commerciale quando ho visto una flotta di paralumi scendere dal cielo come dischi volanti e in un fascio di luce dei robot alieni sono venuti da me". Seguono intubazioni e tavoli operatori, fino alla visione finale di un'impossibile rinascita "in pienezza e verità". Un rapimento alieno, insomma, che sembra avere molto in comune con un altro tipo di rapimento: quello dell'esperienza mistica. Perché in "Javelin", non a caso, è proprio la figura del mistico quella in cui va a rispecchiarsi più che mai lo sguardo del songwriter americano.
Otto anni dopo "Carrie & Lowell", Stevens torna all'essenziale, al suo lato più minimalista e scoperto. Nel mezzo c'è stata la consueta pletora di divagazioni, sperimentazioni e collaborazioni assortite, ma in fondo le attese puntavano tutte a questo momento. E se quel senso impellente di urgenza che animava "Carrie & Lowell" resta probabilmente irripetibile, "Javelin" riesce a conquistare una maturità espressiva in cui le varie dimensioni del multiverso di Sufjan trovano la loro migliore conciliazione.
A testimoniarlo ci pensa subito l'incipit di "Goodbye Evergreen", che sboccia da un sospiro sulle note del piano, per poi esplodere dopo appena un minuto in una girandola di synth e percussioni sintetiche degna di "The Age Of Adz" o "The Ascension". Ancora una volta, il punto di partenza è la precarietà della vita: Stevens dà l'ultimo addio al suo compagno, Evans Richardson IV, la cui scomparsa è una ferita che percorre tutto il disco. "Everything heaven-sent/ Must burn out in the end", sussurra in equilibrio su quel crinale tra amore e perdita in cui si dibatteva tutta la drammaticità di "Carrie & Lowell".
I brani di "Javelin" si sviluppano seguendo lo stesso canovaccio, che dal fremito di un arpeggio cresce verso una progressione corale, fino ad arrivare al climax attraverso una sorta di illuminazione estatica. L'ariosità dei suoni, dallo spirito festivo di "A Running Start" al respiro devozionale di "Genuflecting Ghost", è tutta frutto del lavoro casalingo di Stevens, che ricorre solo all'accompagnamento di una compagine di voci femminili (tra cui spicca il nome della cantautrice Hannah Cohen). Unica eccezione è la presenza della chitarra di Bryce Dessner dei National in "Shit Talk", l'episodio più dilatato di un album che per il resto si mantiene volutamente conciso (ma l'edizione offerta in esclusiva da Rough Trade include anche un Ep aggiuntivo con cinque preziosi inediti).
Il coraggio di mostrarsi fragili è la forza di queste canzoni, la cifra della loro autenticità. "So benissimo di essere stato spesso il manifesto del dolore, della perdita e della solitudine", ammette Stevens. Ma non per questo rinuncia a dare voce anche alle sue domande più indifese, come nella richiesta di amore incondizionato che incalza la melodia lieve di "Will Anybody Ever Love Me?". "Dio mi ha dato una penna e un blocco di carta pergamena. 'Trascrivi quello che senti e quello che scopri', mi ha detto". E così, ecco il diario di una relazione travagliata prendere forma tra le pieghe di "So You Are Tired" e "Shit Talk", confondendo rabbia e senso di colpa in un'unica spirale. Una confessione che dalle tracce del disco si estende alle pagine del booklet: tra collage fotografici e brandelli di memoria, Stevens firma dieci brevi racconti sulla sua personale cognizione dell'amore, dal battito del ventre materno fino al viaggio cosmico verso il grande ignoto. Con tutto il suo senso di meraviglia per il mistero della vita: "Così tanto significato, così poco tempo".
È con "Everything That Rises" che il percorso iniziatico di "Javelin" entra davvero nel vivo, prendendo in prestito il titolo da un racconto di Flannery O'Connor (ispirato a sua volta a una citazione del teologo Pierre Teilhard de Chardin). "Can you lift me up to a higher place?/ Forget everything that was before", invoca Stevens mentre la vibrazione della sua voce sembra restare sospesa a mezz'aria. Poi, il ritornello si distende e l'ascesi assume un orizzonte universale: "Everything that rises must converge/ Everything that rises in a word".
Il culmine arriva come un lampo, una visione di nemmeno due minuti. Un'esperienza di picco, direbbero quelli che se ne intendono, un istante davanti a cui sembra squadernarsi il significato delle cose. "It's a terrible thought to have and hold", annuncia su un velo palpitante il brano che dà il titolo all'album: paradosso di un desiderio al tempo stesso attraente e terribile, perché cercare di stringere qualcosa tra le mani significa averla già persa. "Volevo disperatamente possedere e trattenere la vera sostanza delle cose (l'evidenza!)"; ma - aggiunge subito Stevens - "la vera materia della divinità è ineffabile".
Paradosso ulteriore: proprio mentre "Javelin" muove i primi passi nel mondo, il suo autore si trova costretto su una sedia a rotelle. "Una mattina mi sono svegliato e non riuscivo a camminare. Le mie mani, le mie braccia e le mie gambe erano intorpidite e formicolanti e non avevo forza, né sensibilità, né mobilità". Sindrome di Guillain-Barré, recita la diagnosi: una malattia autoimmune che colpisce il sistema nervoso. Le terapie, la riabilitazione, il percorso ancora lungo da affrontare: eppure, per Stevens, "tutta questa esperienza è stata una benedizione sotto mentite spoglie". Qualcosa capace di risvegliare la speranza nell'umanità e nella sua capacità di cura. Ed è proprio su una breccia di speranza che si chiude "Javelin", con la complicità della sapienza agreste di Neil Young: Stevens ruba tra le spighe di "Harvest" il canto di riconciliazione con il mondo di "There's A World" e se ne appropria con la grazia e la leggerezza dei tempi di "Seven Swans". "There's a world you're livin' in/ No one else has your part". Il mondo è là fuori, con tutto il suo carico di possibilità. Così tanto significato, così poco tempo.
12/10/2023